Sei interessato a discutere di società e politica? Qui puoi farlo con noi e con chi lo desidera. Con il solo limite del rispetto reciproco. Augusto, Mario, Mattia, Maurizio e Pietro ti danno il benvenuto.

domenica 31 ottobre 2010

Il cuoco di bordo

L'autonomia dei laici cattolici in politica è un dato ormai acquisito. Lo è in considerazione del fatto che, dalla medesima fede in Cristo, non necessariamente deriva una e una sola opzione politica. La prima, del resto, attiene la sfera dell'assoluto; la seconda quella dell'opinabile, del transeunte. Certo rimane il necessario riferimento alla Dottrina Sociale della Chiesa. Che proprio perchè dottrina, aggiorna continamente se stessa con l'obiettivo di indicare scelte concrete che, rimandando ad una rivelazione immutabile, ne interpretano il messaggio alla luce delle diverse condizioni sociali.

Non sono quindi le ultime penose vicende che interessano il Presidente del Consiglio ad indurmi a invitare chi, cattolico, ha scelto il Popolo delle Libertà a "ravvedersi" e raggiungermi nel Partito Democratico. Oso credere che, per un cattolico, aver scelto il centrodestra, abbia motivazioni più profonde che non la presenza di Silvio Berlusconi. Come per me scegliere il PD nulla ha a che vedere con una qualsiasi forma di antiberlusconismo.

Piuttosto chiedo quali ragioni possano indurre un cattolico del PdL a continuare ad accettare che il suo partito di riferimento abbia come leader Silvio Berlusconi. Come sia possibile che continui a sostenere un governo il cui Presidente del consiglio di Ministri sia Silvio Berlusconi. Nella migliore delle ipotesi siamo di fronte ad un caso di eterogenesi dei fini.

Abbiano più coraggio i cattolici del PdL. Rifiutino l'afasia in cui li confina una situazione che ha ormai superato il grottesco. Non attendano una presa di distanze ufficiale della Chiesa italiana per agire! Si assumano la responsabilità propria dei laici cattolici in politica tornando a porre al centro della loro azione il bene comune del Paese.

La nave [cioè la società] ormai è in mano al cuoco di bordo; e le parole che trasmette il megafono del comandante non riguardano più la rotta, ma quel che si mangerà domani”(Soren Kierkegard, 1845).

Forse oggi è questo il compito più urgente dei laici cattolici in politica. Di centrodestra come di centrosinistra. Rimandare il cuoco in cambusa perchè i passegeri possano tornare a scegliere la rotta della nave.

mercoledì 6 ottobre 2010

Se un sindacato torna nel mirino

Da tempo sostengo che la classe sindacale italiana rischia di non essere all'altezza dei problemi del mondo del lavoro oggi. Tutta la classe sindacale. Non lo è la CGIL, che di fronte a qualsiasi occasione di confronto con la sua naturale controparte, dice no; a priori. Non lo è la CISL, (il sindacato al quale sono iscritto da oltre vent'anni) il cui segretario Bonanni è diventato la cinghia di trasmissione del pensiero (?) del ministro Sacconi. Non lo è la UIL, che segue le mosse della CISL. Ne consegue la totale solitudine dei lavoratori proprio nel momento in cui più necessaria sarebbe la presenza di un sindacato illuminato.

Ma le aggressioni subite oggi dalla CISL non appartengono al confronto tra le parti sociali. Un confronto che può certo essere rude nei toni e duro nei contenuti, ma che si deve mantenere sempre e comunque nell'alveo del confronto democratico. Appartengono invece a quel tipo di scontro che disconosce la controparte. Che non conosce avversari, ma nemici. E come tali li colpisce considerando lecito ogni metodo di lotta.

Sono preoccupanti i fatto accaduti oggi ad alcune sedi della CISL. Ultimi di una inaccettabile serie di episodi di intolleranza.

Se ne occupi il ministro Maroni, se ne è capace.
Se ne renda conto la classe sindacale tutta.
Prima che episodi come questi cedano il posto ad azioni ancora più gravi.
Prima che sia troppo tardi.

domenica 3 ottobre 2010

Amareggiato da mons Fisichella

Salvatore Fisichella è stato, per anni, docente di teologia fondamentale alla Gregoriana. E’ quindi pienamente conscio del significato delle sue parole quandi dice, a proposito della bestemmia di Berlusconi, che bisogna contestualizzre. E se lo dice, come appare palese, per limitarne la gravità, lascia basiti. Perchè la contestualizzazione peggiora la gravità della bestemmia pronunciata da Berlusconi.

Un conto è una bestemmia pronunciata da chi si trova a operare in condizioni fisiche di fatica estrema oppure vive situazioni nelle quali la bestemmia è quasi un intercalare comunemente praticato. Altro è quella assolutamente gratuita pronunciata da un Presidente di Consiglio dei Ministri al solo scopo di offendere, con la peggior cattiveria possibile, un avversario politico che evidentemente lo ossessiona (alla quale ho già espresso tutta la mia stima e solidarietà).

Insomma: non sono sorpreso dal bestemmiare gratuito di Berlusconi (sarebbe realistico aspettarsi di più o di meglio?); come cattolico sono invece profondamente amareggiato dalla superficialità di mons. Fisichella.

martedì 28 settembre 2010

La Lega e il colpevole silenzio del PD varesino

Nei partiti i congressi costituiscono un momento fondamentale, nel quale vengono definiti linea politica e indirizzi programmatici.
Naturale guardare con curiosità al congresso provinciale del PD per capirne gli orientamenti, soprattutto in relazione al rapporto con la Lega, che proprio nel varesotto ha la propria terra di elezione, perchè varesotti sono, tra gli altri, Bossi e Maroni.
Ecco cosa ritroviamo nel documento di indirizzo programmatico del candidato unico alla segreteria provinciale del PD, Taricco: "E’tempo di assumere un atteggiamento fermo nei confronti della Lega. Dalla nostra provincia deve partire un’azione capillare per smascherare le ambiguità del carroccio. I leghisti hanno votato senza battere ciglio tutte le nefandezze proposte dal governo di centrodestra (legge ad personam e ad aziendam, scudo fiscale, attacchi al mondo del lavoro e ai diritti, ecc). Il loro richiamo al federalismo è smentito nei fatti quando approvano la manovra correttiva che riduce drasticamente i trasferimenti agli enti locali costringendo questi ultimi al taglio di servizi di prima necessità per i cittadini. La Lega inneggia alla virtuosità dei conti pubblici e poi partecipa con il governo alle regalie ai comuni di Catania, Palermo, Roma (tutti di centrodestra) per coprire i buchi nei bilanci dei quei comuni."
Alla Lega si rimprovera la scarsa coerenza sui temi del federalismo e l'appoggio ai provvedimenti pro premier.
Tutto qui.
Il segretario provinciale del PD non dice nulla sull'uso strumentale del tema sicurezza operato dalla Lega; non dice nulla sulla lunga teoria di decreti sicurezza, sfornati da questo Governo, su impulso della Lega; non dice nulla sulla concezione emergenziale del tema immigrazione, che per la Lega è fenomeno da contrastare con forza; non dice nulla sulla giustizia fai da te e sulle ronde volute dalla Lega; non dice nulla sui rom, che, per Maroni, vanno sgombrati dai campi nomadi, ma il cui destino abitativo viene demandato al terzo settore.

E se questa è la posizione dell'unico candidato alla segreteria, evidentemente è la posizione prevalente, se non unanime, del PD provinciale: il silenzio complice di fronte alla Lega e alle sue politiche, nella speranza che un giorno, chissà, si possa andare a braccetto con Bossi e i suoi: in fondo sono una "costola della sinistra".

Che vergogna.

martedì 14 settembre 2010

Lega: Maroni ... e sinonimi

Chiedo scusa ai coautori del blog e ai nostri 25 (esagerato !) lettori, ma mi accingo a postare un articoletto un tantino volgare. D’altra parte devo parlare della Lega e mi corre quindi l’obbligo di adeguare il linguaggio allo stile del suo leader, il Bossi da Gemonio, che ormai da mesi gira l’Italia con il dito medio perennemente sollevato in segno di saluto (forse perché, passati gli anni del celodurismo, il dito è l’unica cosa che riesce a sollevare).

Battute grevi a parte, mi preme brevemente parlare di quanto successo ad Adro.
Adro, ridente (fino a ieri) paesino in provincia di Brescia, è amministrata da un simpatico sindaco leghista, anzi, a lui probabilmente piacerebbe essere definito borgomastro, che, in vista del nuovo anno scolastico, ha avuto una pensata geniale: per farla breve, costui, il borgomastro padano, ha disseminato le aule della scuola elementare, pubblica, cioè di tutti, di effigie del “Sole delle Alpi”, il simbolo del suo partito, la Lega appunto.
Una scuola pubblica riempita di effigie raffiguranti simboli di un partito. Che fenomeno ! Roba che non si vede più nemmeno nella Russia dell'amicone Putin.
Che dire ? Lega: un Maroni, tanti coglioni.

p.s.: a proposito di Lega, il Bossi da Gemonio domenica, dopo aver battezzato (con rito celtico ?) a Venezia quel lavativo (tutto suo padre !!) del figlio, Renzo "la trota", cui noi, somari lombardi, paghiamo 12.500 euro al mese di stipendio, ha detto che “il federalismo è alle porte, ormai la va a giorni”. Caspita ! In effetti ho appena sentito che l’hanno intravisto, il federalismo padano, dalle parti di Arquata Scrivia ed entro domenica, traffico permettendo, dovrebbe arrivare a Bagnolo Cremasco.
Ah, no, scusate, non è il federalismo padano, è Miss Padania … va beh, è lo stesso: federalismo padano o Miss Padania non cambia, sempre di stronzate si tratta.

domenica 12 settembre 2010

Sinistra "radicale": la misura del tradimento dell'idea del PD

L'avversario politico come un nemico, che non ha diritto di esprimere le proprie opinioni, e che va quindi fatto tacere, anche ricorrendo alla violenza, verbale e fisica.
Questa è la politica secondo quelli che hanno, con le proprie prodezze, "animato" la festa del PD a Torino: la scorsa settimana impedendo a Schifani di partecipare ad un dibattito con Fassino e, nei giorni scorsi, inscenando una violenta gazzarra contro il segretario della Cisl Bonanni. Entrambi nemici, entrambi zittiti.
Individui e gruppi che fanno politica usando la violenza. E che trovano comprensione, giustificazione e tolleranza tra le forze politiche della sinistra "radicale". Ricordiamo bene che la scorsa estate il nuovo profeta della sinistra italiana, Nicky Vendola, elencò, durante un intervento pubblico, i suoi "eroi": Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Carlo Giuliani.
Proprio così: Falcone e Borsellino, uccisi dalla mafia in quanto uomini dello Stato, assimilati a Carlo Giuliani, ucciso durante i violenti scontri al G8 di Genova.
Incredibile e vergognoso.
E proprio il rapporto con la sinistra "radicale" offre la misura della distanza che separa il PD attuale rispetto a ciò che era nel 2007, alle sue origini.
Walter Veltroni evidenziò subito la volontà di non allearsi con la sinistra "radicale". Un gesto chiaro, limpido, che evidenziava la rottura del PD rispetto alla tradizione comunista; una scelta fatta con lo sguardo rivolto al futuro, un futuro nel quale per Veltroni non c'era più posto per la tragica utopia comunista. Un atto di chiearezza e di coraggio, fatto con la forza di chi, per affermare un'idea e vincere la guerra, è disposto a perdere la battaglia: purtroppo Veltroni perse le elezioni del 2008.
Ma, caduto Veltroni, il coraggio della rottura con la sinistra "radicale" si è perso e, piano piano, si è ritornati ad abbracciare la teoria del "nessun nemico a sinistra" fino ad arrivare al patto di desistenza tra PD e "sinistra radicale" siglato recentemente tra Bersani e i vari Vendola e Ferrero. Alle prossime elezioni politiche PD e sinistra "radicale" si strizzeranno l'occhio: un ritorno al passato, con un unico obiettivo, vincere le elezioni, senza il benchè minimo disegno di progettualità per l'Italia del futuro.
Il PD delle origini e l'attuale PD: due soggetti politici diversissimi.
Qualcuno si è accorto dell'involuzione e se ne è andato. Chi è rimasto o non se ne è accorto o pensa che il futuro dell'Italia passi attraverso alleanze con chi si richiama al comunismo e tollera la violenza politica.
Auguri, compagni !

lunedì 6 settembre 2010

Strade nuove

L’estate della politica si è chiusa ieri con il discorso di Fini a Mirabello.
Un’estate politica caotica e, per certi versi, squallida, al termine della quale ritroviamo tre elementi certi:
1) L’implosione del PDL che, come affermato da Fini, “non c’è più”: il fallimento del progetto del teorizzato partito liberale di massa, dietro il quale si cela in realtà una visione padronale del partito e delle istituzioni, entrambi visti come strumenti da asservire all’interesse personale del capo;
2) La perdurante afasia del PD, intento ad occuparsi non dei problemi degli italiani, ma del “se e come fare le primarie”, con le immancabili bordate che dal territorio (vedi Chiamparino e Renzi) arrivano sulla dirigenza nazionale, e, sullo sfondo, il perpetuarsi della ventennale contrapposizione D’Alema – Veltroni;
3) La convergenza tra Fini, Casini e Rutelli su alcuni temi concreti dell’agenda politica, dalla riforma della legge elettorale al quoziente familiare, nel quadro di una ritrovata “etica del dovere”, scomparsa dal lessico del bipolarismo italiano e finalmente rievocata, si spera non solo ad uso giornalistico, da Casini e Fini nei loro recenti interventi pubblici.
Ed è interessante notare come proprio Fini e Rutelli, cofondatori del PDL e del PD, ne abbiano certificato la fine. Probabilmente persuasi che non di “fusioni tra uguali” si è trattato, bensì della fagocitazione del più piccolo ad opera del più grande. E così se il PDL è diventato una Forza Italia allargata, un partito padronale, nel quale uno decide (il più delle volte pro domo sua) e gli altri obbediscono, senza luoghi di discussione, il PD si è appalesato come la prosecuzione della storia politica del PCI-PDS-DS, con gli stessi stilemi, dalle adunate di piazza quali momenti fondativi della propria soggettività politica, al collateralismo con la CGIL, dal centralismo democratico (che in provincia di Varese abbiamo purtroppo sperimentato di persona) ad un certo giustizialismo a senso unico.
Il partito azienda contrapposto alla riproposizione della presenza politica della sinistra italiana. Questo è il bipolarismo italiano: altro che nuovo modo di fare politica !
Un’offerta politica che ha prodotto distanza e disillusione in tanti elettori, che, infatti, preferiscono non votare.
Fini e Rutelli hanno certificato la fine del PDL e del PD; si apre ora una fase nuova.
L’auspicio di chi ha da tempo smesso di credere in questo bipolarismo è che da questi fallimenti incrociati possa nascere qualcosa di positivo, un rinnovato impegno, le famose "strade nuove" da tempo evocate da Padre Sorge, una nuova soggettività politica, che si possa inserire a pieno titolo nel solco del popolarismo italiano. E mi piace richiamare la chiusura dell’appello ai “liberi e forti” di Don Sturzo:
“A tutti gli uomini moralmente liberi e socialmente evoluti, a quanti nell'amore alla patria sanno congiungere il giusto senso dei diritti e degl'interessi nazionali con un sano internazionalismo, a quanti apprezzano e rispettano le virtù morali del nostro popolo, a nome del Partito Popolare Italiano facciamo appello e domandiamo l'adesione al nostro Programma.”
Siamo pronti all’impegno, con passione e dedizione; pronti, ma, come tutti quelli che vivono l’impegno politico come ricerca del bene comune e non dell’interesse personale, saremo vigili di fronte a tentazioni di trasformismo, derive plebiscitarie e, soprattutto qui al Nord, cedimenti alla “cultura dell’egoismo”, incarnata dalla Lega, con la quale, è bene dirlo subito, non si deve scendere a compromessi.

sabato 4 settembre 2010

Basta ammucchiate !

"Se Berlusconi e la Lega dovessero portare il Paese alle terze elezioni in sei anni, allora noi proporremo a Fini un'alleanza per la democrazia. Noi staremo con tutti coloro che sono disponibili a salvare questa Costituzione". Queste le parole pronunciate ieri da Rosy Bindi, presidente del PD.
Un'alleanza tra Fini, Casini, Rutelli, Bersani, Di Pietro, Vendola, Pecoraro Scanio e Diliberto ? Per fare cosa ? Con quale programma ?
Se una persona seria e rigorosa come Rosy Bindi arriva a proporre una simile enormità, significa due cose:
1) il PD è alla frutta e non sa che pesci prendere.
2) il bipolarismo italiano è in stato comatoso.
Del PD alla frutta poco ci importa, del bipolarismo italiano un po' di più.
E purtroppo duole constatare come, a differenza di quanto avviene nel resto dell'Europa, il nostro bipolarismo è assolutamente deficitario, rissoso e inconcludente.
Ma d'altro canto il problema è che in Italia i due poli non si sono aggregati sulla base di comuni ideali e valori, bensì sulla base di una scelta di "tifo": berlusconiani contro anti-berlusconiani.
E quando prevale il tifo sulla politica, i populisti trionfano: non a caso Bossi e Di Pietro tengono in scacco i rispettivi schieramenti.
Ma è chiaro che questo schema mostra la corda ed è ormai urgente ed indifferibile guardare al futuro quando, uscito di scena Berlusconi, si tornerà alla politica e al confronto su idee e contenuti: quale società, quale modello di sviluppo, quale scuola, quale politica di integrazione dei migranti, eccetera. Come avviene in Germania, Francia, Regno Unito e nel resto dell'Europa.
Dove ci si divide tra popolari e socialisti.
Lavoriamo perchè questo momento arrivi presto anche in Italia.

giovedì 2 settembre 2010

Un pò di verità sulla politica industriale

«È venuto il momento che l’Italia si dia una seria politica industriale nel quadro europeo secondo le grandi coordinate dell’integrazione europea». Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica.

Ma cos'è una politica industriale? Si sa, gli industriali sono allergici alla politica, la vedono come soggetto sconosciuto dalle sembianze mostruose e non molto amiche. E spesso è vero anche il contrario; cioè i politici non sono molto amici dell'industria. Quando si parla di politica industriale il pensiero corre facile a misure quali gli incentivi, gli aiuti di Stato alle grandi imprese o a specifici settori, ad iniziative di sostegno della domanda e dei consumi, ad istituti quali la cassa integrazione o la mobilità. Tutte misure "paraindustriali" che marcano semmai situazioni patologiche e non fisiologiche dell'industria, vendute dai governanti come "strumenti di politica industriale". Forse è per questo che gli industriali sono allergici alla politica.

Fare politica industriale non significa nominare un Ministro dello Sviluppo Economico. La politica industriale nasce e prende forma dentro le fabbriche, negli uffici di progettazione, nei rumorosi reparti produttivi, sui tavoli attorno ai quali si riuniscono manager ed industriali per decidere se e come investire risorse, quali e quanti beni produrre, quali e quanti lavoratori necessitano.

Gli industriali si fanno politica da sè.
Semmai hanno bisogno che la politica dia a loro condizioni di contesto idonee e favorevoli. Cito in questa sede solo due elementi: la cultura del lavoro industriale, le infrastrutture.
Anziutto si fa politica industriale se si favorisce la diffusione della cultura del lavoro industriale. Il lavoro nelle aziende industriali ha caratteristiche precise, orari, metodi, tempi, ritmi, tensioni, particolari. La vita di fabbrica e l'ambiente di fabbrica sono molti particolari. Fare politica industriale significa anzitutto favorire la presenza dei lavoratori all'interno di questo ambiente, facendone cogliere le sue caratteristiche peculiari senza avere la minima pretesa di snaturarne o omologarne i contenuti tipici.
In secondo luogo si fa politica industriale consentendo alle industrie di stare nel mondo globale restando dove sono. Saronno dista da Busto Arsizio pochi chilometri, ma è possibile impiegarci più di trenta minuti per percorrere questa distanza? Politica industriale significa merci che si spostano, persone che si spostano, macchine che si spostano. L'industria è sempre in movimento, quando le merci si fermano i cancelli si chiudono. Auguriamoci pertanto di avere sempre problemi di spostamento da risovlere e da girare alla politica.

Credo quindi che la questione non sia tanto la mancanza del Ministro.
L'industriale produce e vende i suoi beni a prescindere dall'esistenza di un Ministero dello Sviluppo Economico. Per fortuna. Se la politica avesse davvero interesse a favorire e rilanciare l'industria nel nostro Paese sentiremmo campagne formative nelle scuole che illustrano e spiegano come si lavora nelle fabbriche, avremmo condizioni infrastrutturali adeguate, avremmo maggiore disponibiltà di profili professionali specializzati di cui le industrie, quelle italiane, continuano ad avere bisogno. Per fortuna.

Pietro Insinnamo

martedì 31 agosto 2010

Sebbene

“... Viva anche la chiusura di certe rotte marine della sofferenza e della morte per migranti d’Africa e dei cinici traffici dei nuovi mercanti di esseri umani, sebbene inevitabile e dolente il pensiero corra ai "respinti e basta", agli uomini e alle donne e ai bambini in fuga dalle guerre e dalla persecuzione che si arenano nei deserti di Libia e nessuno riconosce e nessuno accoglie secondo umanità e secondo le leggi che le nazioni civili si sono date. …”.

Che la (nuova) visita del colonnello Gheddafi nel nostro Paese susciti tanto scandalo, sinceramente mi sorprende. Del resto è chiaro che la ratio della visita può essere ben sintetizzata dal noto adagio pecunia non olet. Quindi chi lo ha invitato ha messo in conto tuta la coreografia. E ha deciso che il (proprio) tornaconto economico ben valeva ridicolizzare un Paese sulla scena internazionale. Una coreografia certamente da avanspettacolo, ma non più rivoltante di quella che ci siamo sorbiti per tutta l’estate. Alcuni amano possedere trenta ville, altri vivere in tenda e girare con trenta purosangue berberi; alcuni amano circondarsi di escort e frequentare minorenni, altri amazzoni e hostess: dove sta la differenza? Che poi ci si sorprenda per il proselitismo, ad uso dei musulmani derelitti del Medio Oriente e dell’Africa, mi lascia stupefatto. Semmai stupisco che 700 emancipate ragazze italiane abbiano trovato normale farsi affittare da Gheddafi.

Se chiedessi ai miei tre lettori di chi sono le parole riportate in apertura e la maggioranza di loro rispondesse “di Bossi o Calderoli o Maroni”, non potrei biasimarli. Ma si sbagliano, purtroppo. Già, perché sono tratte dal fondo di oggi di Marco Tarquinio, direttore di Avvenire.
Sarò pure un cattolico atipico, ma queste parole mi lasciano ben più basito di tutto il resto. Tarquinio, che pure nell’articolo citato definisce, giustamente, “incresciosi e urtanti” gli incontri di proselitismo islamico a pagamento messi in scena da Gheddafi, sembra invece considerare inevitabili danni collaterali le morti, le torture e i trattamenti inumani della macchina repressiva attivata dal colonnello per impedire a una parte degli immigrati di raggiungere l’Italia dalla coste libiche. Effetti inevitabili, cui riservare non più di un dolente pensiero. Che, per la morale cattolica, il fine giustifichi i mezzi, è cosa francamente a me ignota.
Ma sono certo che l’editore di Tarquinio la pensi ben diversamente da lui. Se L’Europa e con essa l’Italia diverranno a maggioranza musulmane non sarà certo per il teatrino di Gheddafi. Più probabilmente per l’immagine di cristianesimo che danno quegli amici di Gheddafi che hanno concordato con lui le misure anti-immigrazione. E che, proprio oggi, titolano in prima pagina: “l’Europa sia cristiana”.

domenica 29 agosto 2010

L'addio a Cossiga

Ad agosto è scomparso il Presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga.
Un'uscita di scena in punta di piedi dopo una vita di politico e uomo di Stato vissuta al centro dell'attenzione: esequie private, quali ebbe anche il punto di riferimento di Cossiga, Aldo Moro, il cui tragico destino ha segnato il percorso umano e politico di Cossiga, come di tutta la politica italiana.
Unico momento nel quale poter rendere omaggio allo scomparso ex Presidente della Repubblica la camera ardente presso il Policlinico Gemelli.
A portare l'ultimo saluto a Cossiga si sono recati i Presidenti emeriti Ciampi e Scalfaro, il Presidente della Repubblica, Napolitano, il premier Berlusconi, i Presidenti di Senato e Camera, Schifani e Fini, ministri, autorità civili, militari e religiose e dirigenti politici di tutti i partiti presenti in Parlamento.
Tutti, tranne uno: il Partito Democratico. Nessun dirigente del PD ha avuto tempo e voglia di recarsi a rendere omaggio alla salma dell'ex Presidente Cossiga.
Almeno in questo il PD è coerente: assente per i vivi, assente per i morti.
Semplicemente non pervenuto.

venerdì 27 agosto 2010

Semplicemente un uomo di industria

Invito a leggere l'intervento di Sergio Marchionne a Rimini.
Nell'affermazione "non sono un professore, non sono un economista e neanche lontamante un politico ma semplicemente un uomo di industria" c'è tutta la sostanza non compresa del progetto Fabbrica Italia. Fabbrica Italia non chiede di essere "politicamente" sostenuta, non chiede di essere "sindacalmente" digerita, non chiede di essere "accademicamente" motivata e studiata. Fabbrica Italia è un piano industriale, semplicemente un piano industriale per fare industria oggi e domani in Italia.
Fabbrica Italia: la buona notizia che questo Paese attende da anni, ormai decenni: la possiblità concreta (forse un dovere verso le future generazioni) di continuare a fare industria in Italia. Economia di trasformazione. Progettazione. Industrializzazione. Produzione di beni. Processi industriali di trasformazione fisico - tecnica. Impiego di materie prime. Ultimazione di semilavorati. Assemblaggi. Montaggi. Impianti, linee, controlli automatici. Manutenzioni. Implementazioni. Automazioni. Robotizzazioni. Tecnologia. Tanta tecnologia. Ricerca, innovazione. Tanta innovazione. Sviluppo industriale e organizzativo. Cambiamenti rapidi. Tanti cambiamenti. Dinamismo. Continuo. E tanto altro ancora. Semplicemente industria. Non roba da professori, nulla per economisti, nienete per politici e sindacalisti. Solo un'impresa complessa per semplici uomini di industria.

Pietro Insinnamo

mercoledì 25 agosto 2010

Scenario politico: posizioni in campo

Lo scenario politico nazionale si presenta molto complesso. La conflittualità di questi mesi è indice di una nuova transizione politica verso una terza fase della vita repubblicana. In questa transizione tutti i protagonisti si stanno posizionando in funzione dei propri interessi ed obiettivi. La difficoltà a rendere compatbili tra loro questi interessi, ovvero complementari, amplifica il conflitto.

Berlusconi. Berlusconi ha il problema di individuare l'erede a cui lasciare in dote il berlusconismo. Non è detto che lo scelga nell'ambito politico. Anzi, credo che sia più probabile che lo peschi fuori dalla politica, cioè dal suo enturage familiare o aziendale. Il berlusconismo non è una corrente di pensiero politica, pertanto il suo interprete e traghettatore del futuro non credo potrà venire dalla politica. Fino a quando Berlusconi non avrà scelto l'erede non forzerà la mano sulle elezioni. Sono in corso le selezioni.

Bossi. Anche Bossi ha il problema del passaggio generazionale. Ma a differenza di Berlusconi lui ha un luogotente già formato che potrà fare da reggente in attesa che maturi l'erede. Trattasi di Calderoli. La cifra culturale di Calderoli equivale a quella del leader maximo leghista: le spara grosse (forse più grosse) del capo. Deve solo imparare ad attaccarsi un pò di più alla poltrona e poi sarà un perfetto capo leghista. Fino a quando le trote non diventeranno grandi. Bossi ha tutto l'interesse ad accelerare verso le elezioni, dando per molto probabile una forte crescita di consenso e quindi del patrimonio da lasciare in eredità.

Fini e Casini. Fini e Casini puntano ad ereditare il patrimonio politico del centrodestra post - berlusconi una volta de-berlusconalizzato. Si sono posizionati in modo tale da attrarre tutti gli elettori che non sono di sinistra (circa il 75% degli italiani) e che non aderiranno al berlusconismo ed al leghismo futuro, pur magari avendovi aderito fino ad oggi. Oggi non sono pronti ad affrontare le elezioni per due ragioni: anzitutto perchè non sono organizzati territorialmente e mediaticamente, in secondo luogo perchè Berlusconi non è ancora cotto dal punto di vista politico. La proposta di allargamento della maggioranza è funzionale sia alla tattica di allungare la crisi sia di maginificare l'insufficienza di Berlusconi a risolverla, entrambe tattiche finalizzate alla strategia di far implodere il berlusconismo.

Rutelli. Francesco Rutelli sta espiando la colpa di essere transitato dal Partito Democratico. La penitenza è quasi finita. Starà con Casini e Fini nel nuovo centrodestra alternativo al centrosinistra. Deve solo dimenticarsi per sempre di pronunciare la parola "progressisti" e poi l'espiazione sarà compiuta.

Partito Democratico. Francamente, in tutto quello che sta accadendo nella politica italiana, il PD è il grande non pervenuto. Il PD rappresenta quel 25% di italiani che si collocano a sinistra. E' forse l'unica fazione che ha già perferzionato la sua transizione nella terza repubblica. Non ipotizzo sconvolgimenti al suo interno. E' un partito strutturalmente e strategicamente destinato a fare minoranza ed opposizione, e così sarà. Potrà avere qualche parentesi governativa, ma non credo che sarà in grado di lasciare il segno.

Sintesi. Non credo alle elezioni a breve. Al di là delle dichiarazioni strumentali non le vuole nessuno, non servono a nessuno tranne che a Bossi. In ogni caso deciderano Napolitano e i Partiti Politici presenti in Parlamento. Che piaccia o non il sistema politico italiano è di tipo Parlamentare e Partitico. Ancora non siamo alla democrazia diretta e plebiscitaria.
Il bipolarismo è destinato ad implodere e ridursi ad un ricordo non molto piacevole della seconda repubblica.
Nasceranno tre - quattro poli (come ai tempi della prima repubblica): lega - berlusconiani, centrodestra moderato (partito della nazione?), PD, altri estremisti legati al centrosinistra.
La strada è ancora lunga, ma sicuramente più breve di qualche mese fa. Quello che leggiamo oggi sui giornali è da intepretare alla luce di quello che accadrà nel futuro. Forse si potrebbe votare se si concretizzasse in questo senso un asse Lega - Pd, ipotesi non remota. Allora si che Casini, Fini e Berlusconi con Rutelli troverebbero subito una maggioranza alternativa in Parlamento. Sembra fantapolitica, ma spesso nella vita (e in politica quasi sempre) la realtà supera la fantasia.


Pietro Insinnamo

martedì 24 agosto 2010

La storia non si ferma a Gemonio

Norma fa la cameriera in un albergo della riviera ligure.
Raffaele fa l'addetto alle pulizie in un albergo della riviera ligure.
Lavoratori impeccabili, seri e cortesi.
Norma e Raffaele, sposati, provengono da un paesino vicino Arequipa, in Perù. 6 anni fa hanno lasciato dietro di sè per venire in Italia tutto ciò che avevano: genitori, fratelli, sorelle, parenti, amici, casa e terra.
La storia di Norma e Raffaele è la storia di tanti immigrati che oggi, 2010, provengono da Africa, America centrale e paesi dell'Est Europa e vengono nell'Europa occidentale per migliorare le proprie condizioni di vita, a prezzo di sradicarsi dalla propria terra di origine con tutto ciò che questo comporta. Ma è la stessa, identica, esperienza, vissuta da tanti italiani agli inizi del 1900; allora però eravamo noi ad emigrare.
L'immigrazione oggi è come l'emigrazione di un secolo fa: un fenomeno storico con implicazioni sociali, economiche e culturali.
Una classe politica seria dovrebbe governare il fenomeno, promuovendo politiche di integrazione e favorendo il dialogo interculturale.
In Italia se ne parla come di una "emergenza", da gestire con strumenti di contrasto e repressione. Semplicemente ridicolo.
Chi lo fa, la Lega su tutti, con il benevolo avallo del premier e dei suoi dipendenti, è ignorante o in malafede.
Ma, con buona pace dei bossiani, la storia non si ferma davanti alle sfilate in divisa verde, la storia va avanti, solo un po' incredula di fronte a tanta stupidità.

domenica 22 agosto 2010

La nonnina di Casale

Colori, suoni, immagini, incontri, storie.
E' il bello delle vacanze, il tesoro che sedimenta in noi al ritorno.
E' stato così anche quest'anno.
Vicina di ombrellone era una signora anziana, vedova. Arrivava a metà mattina e si dedicava con calma sabauda ai suoi cruciverba; ma, quasi subito, veniva distratta dalla nostra piccola Martina.
E iniziava un simpatico dialogo con lei, che poteva essere la sua bisnipotina. Sorrisi, ricambiati, sguardi di intesa e parole comprensive per le inevitabili marachelle della piccola.
Al pomeriggio capitava di incrociarla, mentre passeggiava sul lungomare, assorta; ma quando vedeva Martina il viso le si illuminava e ricominciava il gioco di sguardi e sorrisi del mattino.
Abbiamo incontrato una bella bisnonna. Probabilmente non la vedremo più, ma la ricorderemo sempre, la nonnina di Casale.

venerdì 25 giugno 2010

Pomigliano o l'inaccettabile accordo necessario

Non è una normale partita tra impresa e sindacato quella che si gioca alla FIAT di Pomigliano. Anzi, interpretano entrambi un ruolo secondario. E’ la globalizzazione la star della rappresentazione. Che mostra il suo vero volto. In modo palese. Per la prima volta, in Italia, con tanta ostentazione. E non per l’unica né per l’ultima. Altre fabbriche, altri settori seguiranno quello che si presenta come un percorso obbligato. Non per l’Italia; forse per l’intero occidente.

Il casus belli è presto detto. In un mercato globale come quello dell’auto, dove l’eccesso di capacità produttiva è stimato tra il 30 ed il 40%, una società come la FIAT potrebbe decidere di continuare a produrre un’auto come la Panda in Polonia. Come già oggi sta facendo. Per portare la produzione in Italia e non mandare a spasso i 15.000 lavoratori che, indotto compreso, ruotano attorno a Pomigliano, vuole che i costi di produzione italiani scendano quel tanto che basta da renderli competitivi con quelli polacchi. Perché solo così può reggere la furibonda battaglia dei prezzi che i produttori ormai combattono da tempo. Sotto il profilo industriale il ragionamento non mostra sfilacciamenti.

Non mi preme, in questa sede entrare nei dettagli delle richieste di Marchionne, anche se più d’una appare francamente irricevibile. Ne mi preme ricordare i comportamenti inaccettabili, più volte posti in essere da parte di alcuni lavoratori, che l’accordo vorrebbe sanare e che, un sindacato degno di questo nome, avrebbe stroncato da tempo e autonomamente. Mi premono alcune riflessioni politiche.
1.La globalizzazione economica ci è stata presentata come quella sorta di miracolo che ci avrebbe consentito di acquistare sempre più beni a minor prezzo perché realizzati laddove il costo di produzione è significativamente inferiore al nostro. E lo è grazie ad una manodopera docile, a sindacati inesistenti e a diritti dei lavoratori di la da venire. Pomigliano svela invece un triplo inganno: a) per acquistare beni servono soldi e per averli, il normale cittadino, deve lavorare. b) per continuare a lavorare dobbiamo riappropriarci di settori produttivi, nel frattempo “delocalizzati”, riproducendo in Italia le condizioni di lavoro dei Paesi che hanno ospitato in questi anni le nostre fabbriche. Dobbiamo cioè rinunciare a 50 anni di miglioramento delle nostre condizioni di lavoro. c) Per poter dare lavoro ai nostri operai e impiegati, dobbiamo ridurre sul lastrico migliaia di altre famiglie, in questo caso polacche. In altre parole da questo modello di globalizzazione liberista (nome in codice: competizione globale senza regole) ci perdiamo tutti. Quasi tutti.
2.Il passaggio epocale di cui l’accordo di Pomigliano è la testa di ponte, invoca a gran voce l’indispensabilità di una classe sindacale all’altezza della situazione. Dobbiamo invece registrare un doppio disastro: quello di un sindacato ormai scendiletto delle controparti, cui si oppone un altro sindacato che sembra geneticamente impossibilitato a pronunciare la parola trattativa. Ne consegue una incapacità complessiva a garantire le condizioni dei lavoratori accompagnandoli all’interno dei nuovi scenari industriali. Lavoratori che, lasciati soli di fronte all’alternativa tra non lavorare e lavorare peggio di prima, non possono che scegliere la seconda. E’ la resa totale del sindacato.
3.Il governo Berlusconi, dilaniato al suo interno da preoccupazioni che nulla hanno a che spartire con la sorte dei lavoratori campani, sembra incapace anche solo di comprendere la gravità di quanto sta accadendo. Sacconi, ministro del Lavoro, si è detto addirittura “soddisfatto” perché Pomigliano “dimostra che da oggi questo Paese è ancora più moderno perché si è adeguato alla competizione”. Tremonti, da par suo, si rallegra perché a Pomigliano si starebbe realizzando un chiaro esempio di “economia sociale di mercato”. Sono esempi paradigmatici, ancorché sconfortanti, dell’abisso che ormai separa questo governo dalle condizioni reali del Paese.

E’ probabile che, nella situazione contingente, tanto l’azienda quanto i sindacati, non abbiano alternative all’accordo. Ed i lavoratori a sottoscriverlo.

Restano però le domande sul dopo. Se è cioè inevitabile che episodi di dumping sociale come quello di Pomigliano siano indispensabili alla sopravvivenza del nostro sistema industriale. Piuttosto che funzionali al modello di globalizzazione imperante. Se può essere considerata crescita quella che peggiora le condizioni sociali, economiche e relazionali delle persone. Quella che invece di far progredire le condizioni di vita nei paesi emergenti, ne comporta le regressione in quelli più avanzati che con i primi si trovano a competere.

Non mi sembrano domande evitabili. In un Paese dove, ringraziando ancora una volta la nostra Costituzione, il lavoro rimane il fondamento della cittadinanza sociale e politica. Dove questa centralità può essere la base di un modello economico alternativo a quello oggi in profonda crisi. Un modello solidale e personalistico. Che riconosca l’esistenza, questa si globale, di diritti vitali degli esseri umani sui quali fondare forme riconosciute di riequilibrio e di redistribuzione che permettano la fruizione universale dei beni economici, a vantaggio dei settori più deboli della società.
Soprattutto non sono domande evitabili per un partito come il PD. Che una maggiore capacità di elaborazione e una più coraggiosa incisività di proposta riporterebbero finalmente al centro del confronto sociale ed economico. Anche alla luce dell’ultima manovra finanziaria, varata in evidente clima disperazione dal governo Berlusconi.

giovedì 24 giugno 2010

Aldo Brancher: l'antiministro

Se minister deriva a sua volta dall'altro vocabolo latino minus, ed indica una persona subordinata, uno che serve, vien da se che Aldo Brancher è l'antiministro per antonomasia.
Cioè colui che, come primo atto, si è servito del privilegio del cd Legittimo Impedimento.

Si potrebbe convenire che, solo a questo fine, Umberto Bossi ha accettato che venisse delegato all'attuazione del federalismo (compito, che con ogni evidenza, mai svolgerà).
Del resto, non lo ha proposto Silvio Berlusconi, l'anti Presidente del Consiglio per definizione?

Chi come noi anti-cittadino non è, nè ha mai desiderato essere, ne paga una volta in più le conseguenze.
Economiche e non solo.

sabato 19 giugno 2010

Marchionne e Cremaschi

Marchionne: scandaloso lo sciopero indetto in concomitanza con la partita dell'Italia.
Cremaschi: Marchionne vergognoso, impari a fare l'imprenditore.
Morale: Cremaschi fa benissimo il sindacalista; i sindacalisti alla Cremaschi fanno malissimo alle imprese.

Pietro Insinnamo

mercoledì 9 giugno 2010

Buone notizie


MILANO—Un teatro, un uomo al pianoforte. È Andrea Bocelli. In platea non c’è nessuno. Il grande tenore è lì per registrare un video-messaggio dedicato a un missionario, padre Rick, che lavora ad Haiti. «Allora — dice —, per questa occasione ho pensato di raccontarvi una piccola storia ». E parla di una giovane donna che arriva in ospedale con dolori che fanno pensare a un problema di appendicite. Lei non sa di essere incinta. «I dottori le misero del ghiaccio sulla pancia—racconta Bocelli — e poi, quando il trattamento era finito, le dissero che avrebbe fatto meglio ad abortire. Che era la soluzione migliore, perché il bambino sarebbe venuto al mondo con qualche forma di disabilità. Ma la giovane e coraggiosa sposa decise di non interrompere la gravidanza e il bambino nacque ». E poi: «Quella signora era mia madre, e il bambino ero io». Quindi aggiunge: «Sarò di parte, ma posso dirvi che è stata la scelta giusta e spero che questo possa incoraggiare altre madri che magari si trovano in momenti di vita complicati ma vogliono salvare la vita dei loro bambini». Alla fine accenna un canto: «Voglio vivere così... col sole in fronte...». Bocelli è nato con una forma di glaucoma congenito che lo ha reso quasi cieco.

A volte sembra che una notizia sia tale solo se è negativa. Al punto che rischiamo di non rallegrarci per quelle veramente positive.
Grazie ad Andrea Bocelli per averci raccontato una di queste.
E, soprattutto, a sua madre per averla resa raccontabile!

mercoledì 2 giugno 2010

2 Giugno, festa di oggi


Il 2 giugno è la principale festa civile del nostro Paese.
Come la presa della Bastiglia (14 luglio 1789) lo è per i francesi. Come la Dichiarazione di Indipendenza (4 luglio 1776) lo è per gli americani.
Ricorda un periodo molto più recente della storia: il 2 e 3 giugno 1946. Quando avvennero due momenti “unici” nella storia della nazione: il referendum istituzionale indetto a suffragio universale e l’elezione dei 556 componenti l’Assemblea Costituente. Il primo sancì la scelta degli italiani per la forma repubblicana, chiudendo così 85 anni di monarchia. Il secondo diede vita all’assemblea che ci “regalò” la carta costituzionale.
Più del 25 aprile, che ne rappresenta in qualche modo la condizione necessaria, il 2 giugno è un momento di unità che dovrebbe superare differenze di ogni tipo.

Mi è quindi particolarmente spiacevole dover rimarcare assenze ingombranti alle celebrazioni di oggi. Soprattutto se gli assenti non hanno perso occasione per evidenziare la loro presenza alle recenti celebrazioni del 25 aprile. Una contradictio in terminis. Capace di gettare una luce sinistra su progetti di federalismo, peraltro mai sufficientemente circostanziati.

Mai come in questo periodo di palese crisi economica il Paese necessiterebbe di forze politiche capaci di far prevalere ciò che unisce su quanto divide. Pur nell’assoluto rispetto del ruolo loro affidato dagli elettori.
Condivido il richiamo alle parole pronunciate il 2 giugno 2005 dall’allora Presidente Ciampi: “Affrontiamo, confrontandoci, i problemi veri del Paese con la volontà di arrivare a soluzioni condivise. E traduciamole in atti concreti”. Parole che mi sembra trovino autorevole eco in quelle pronunciate ieri dal Presidente Napolitano: “Stiamo attraversando, nel mondo e in particolar modo in Europa, una crisi difficile : occorre dunque un grande sforzo, fatto anche di sacrifici, per aprire all'Italia una prospettiva di sviluppo più sicuro e più forte. Per crescere di più e meglio, assicurando maggiore benessere a quanti sono rimasti più indietro, l'Italia deve crescere tutta, al Nord e al Sud. Il confronto tra le opposte parti politiche deve concorrere al raggiungimento di questi risultati, e non produrre solo conflitto, soltanto scontro fine a sé stesso”.

Moniti simili, pronunciati da uomini con storie e sensibilità politiche differenti. Parole che, mi auguro, possano trovare seguito anche a Saronno.
Perché, anche per i saronnesi, il 2 giugno non sia solo il ricordo di un fatto ormai lontano.

lunedì 31 maggio 2010

Caino, dov'è tuo fratello?

Si chiamava "Freedom Flottilla". Portava 700 pacifisti, giornalisti, personalità religiose e politiche provenienti da tutto il mondo verso Gaza. Pacifisti appartenenti a organizzazioni non governative, al mondo del volontariato e della solidarietà, che volevano rompere l'assedio e l'embargo sulla popolazione di Gaza e chiedevano di poter portare aiuto a queste persone. "Il blocco degli alimenti è totale" ha dichiatato il parroco di Gaza, padre Jorghe, a Pax Christi International, che con la comunità palestinese chiede non solo solidarietà, ma giustizia e coraggio nella denuncia.

Israele ha commeso un crimine orrendo assaltando le navi che volevano attraccare al porto di Gaza per portare aiuto e uccidendo 10 persone. Soprattutto un crimine inutile. Violenza gratuita. In totale spregio del diritto internaizonale e del valore della vita umana. Esattamente come i terroristi dell'integralismo islamico quando si fanno esplodere sugli autobus; nei supermercati; nelle strade affollate. E nulla cambia il sospetto che su quelle navi ci potessero essere armi. Infinite erano le possibilità di scoprirlo senza causare un massacro.

"Chiediamo l'immediata liberazione dei pacifisti arrestati, rottura immediata dell'embargo cominciando dagli aiuti che le navi portavano da ogni parte del mondo. E poi sanzioni economiche e un'inchiesta internazionale per un crimine che poteva e doveva essere evitato".
(Pax Christi Italia)

"L'assalto alle navi delle Ong è un fatto di assoluta gravità. Israele deve rispondere alla comunità internazionale di quello che è successo. Il sangue versato soffoca le prospettive di pace e minaccia di accendere i fuochi della tensione e dell'odio. Il risarcimento di un fatto così grave può essere ricercato solo, da parte del governo Netanyahu, in un gesto di pace coraggioso, visibile e sincero, un gesto che fino ad oggi non ha saputo né voluto fare".(Pierluigi Bersani)

Nessuno può, in coscienza, affermare che la situazione in Medio Oriente sia di semplice composizione. Non si superano con buone parole odi e diffidenze sedimentate nei decenni. Ne si convertono alla pace in poco tempo generazioni che hanno visto solo guerra. Da una parte e dall'altra.

Ma al popolo della Bibbia non sfuggirà sicuramente la tremenda domanda di Dio: "Caino, dov'è tuo fratello?".

sabato 8 maggio 2010

Riflessioni su discorso di Franceschni a Cortona

Molto denso il discorso che oggi Franceschini ha fatto a Cortona: quattro passi in particolare mi hanno colpito.

"Difendere lo stato di diritto, il parlamento, la costituzione, i principi di legalità, le intercettazioni come strumento per contrastare il crimine, difendere i valori più sani della società italiana non è antiberlusconismo: è il primo dovere del partito democratico, il debito che noi abbiamo nei confronti delle generazioni che ci hanno preceduto, quelle che ci hanno consegnato diritti e libertà da custodire, rinnovare e tramandare alle generazioni che verranno dopo di noi".
E' vero, noi crediamo in un modello di società fondato sull'uguaglianza, sul diritto, sulla giustizia, sulla multiculturalità. E' ora che il PD con chiarezza, con progetti concreti, con proposte valide, trasmetta alle persone che un altro modello di società, diverso da quello imposto dal berlusconismo, è possibile! Ma per fare questo è necessario un presupposto essenziale: l'unità. Quando si legge che all'interno del PD ci sono diverse proproste sulla giustizia e sul lavoro e che non si riesce a trovare una sintesi comune su questi temi, cosa pensa la gente comune? E' necessario che la discussione trovi una sintesi! Al PD non manca la discussione dei temi, ce n'è fin troppa...ma manca una sintesi condivisa. E questa è la prima sfida da raccogliere! Anche questo è un debito che abbiamo nei confronti delle generazioni che ci hanno preceduto, e in particolare dei Padri costituenti.
Pure nella nostra provincia varesina sarebbe ora di passare dalla discussione alla sintesi: i circoli in questi anni hanno lavorato molto, hanno discusso, c'è nei nostri comuni una ricchezza straordinaria di idee e di proposte. Quando ci decideremo a tenerne conto per partire da lì a dire la nostra idea di provincia? Per quanto ancora perderemo tempo dietro a riunioni e tabelle inutili?

"Se siamo qui, se scommettiamo ancora sul progetto originario così come lo abbiamo sognato, è perché siamo convinti che il Pd o è davvero un partito nuovo, capace di andare oltre la semplice addizione delle storie e delle identità precedenti, oppure è destinato ad un rapido tramonto".
Aggiungerei una cosa: il PD non deve essere nemmeno la somma di correnti...è giusto che ognuno abbia i suoi riferimenti a livello del partito, ma sarebbe sbagliato ragionare all'interno del partito sempre e solo in termini di correnti. Perchè ormai, invece, il metodo è questo, già a partire dalle nostre piccole realtà provinciali. E quando capiremo che la gente nei circoli chiede altro? Chiede di poter ragionare non sulle appartenenze ma sulle idee?

"Abbiamo perso le elezioni. Non perché per poche migliaia di voti non abbiamo conquistato due regioni in bilico. Ma perché abbiamo registrato una grave emorragia di consensi in termini assoluti. Più di quattro milioni di voti dalle politiche del 2008, più di un milione dalle europee dello scorso anno. Siamo al punto più basso della nostra brevissima storia. Non mettiamo questa grave sconfitta sul conto di nessuno, ma chiediamo che l'analisi della sconfitta sia rigorosa e approfondita e sgombri il campo ad alcuni equivoci pericolosi che hanno messo a rischio il progetto".

Sì, è vero, è necessaria un'analisi rigorosa e approfondita della sconfitta, senza però voler trovare capri espiatori. Ma l'analisi va fatta, è doveroso farlo! Anche qui nella nostra provincia. Un'analisi, come dice Franaceschini, rigorosa! Non qualcosa che si fa per formalità, come abbiamo fatto anche qui a Varese, ma per cambiare pagina, per ripartire dagli errori fatti. A molti fa comodo tutelare lo "status quo" perchè significa tutelare la propria posizione: ma cerchiamo di andare al di là del nostro interesse personale e cerchiamo, almeno ora, di difendere gli interessi del partito. E il vero, unico interesse del PD è il cambiamento!

"Non so se è troppo di sinistra, ad esempio, pensare ad una moratoria nell'acquisto di sistemi d'arma da parte del nostro governo. Ma credo che in un frangente come questo di gravissima crisi sociale, nel quale si fatica a racimolare le risorse per lenire la sofferenza di centinaia di migliaia di persone, sia francamente incomprensibile, e direi anche oltre la soglia delle cose moralmente accettabili, spendere in armi da guerra".

Che bello questo richiamo di Franceschini! Da quanto tempo nessuno aveva il coraggio di denunciare le grandissime spese nelle armi, per paura di essere giudicati "troppo di sinistra".E' un bel segno, il segno che dobbiamo davvero tornare a credere profondamente nelle nostre idee senza alcuna paura! E' l'ora del coraggio!



venerdì 7 maggio 2010

Kate Winslet e le occhiate malevoli del mio macellaio

Ho visto The Reader, film dell’anno scorso valso a Kate Winslet un meritato Oscar come migliore attrice protagonista. Si tratta di un melodramma robusto e fortunatamente asciutto. Dico fortunatamente pensando ai lacrimosi precedenti del regista Stephen Daldry (Billy Elliot) e del produttore Anthony Minghella (Il paziente inglese).

La storia è presto riassunta. Nella Germania di metà anni Cinquanta, un quindicenne viene iniziato al sesso e all’amore da una donna di venti anni più anziana, durante una relazione lunga un’estate. Una decade più tardi, il ragazzo è studente di giurisprudenza e si prepara a diventare avvocato. Per caso, scopre che la donna da lui amata è ora sotto processo per crimini contro l’umanità. Sorvegliante ad Auschwitz, è responsabile della morte di trecento persone. Il giovane si sente attratto da lei, ma allo stesso tempo prova repulsione. Non va a trovarla in carcere dopo la condanna, ma non rinuncia a scriverle e a inviarle la registrazione della sua voce. La donna è analfabeta e lui le legge romanzi. Rinnovando così il rapporto di gioventù: allora, dopo l’amore veniva sempre la lettura. La donna, con tenacia feroce, approfitta delle registrazioni per imparare a leggere e scrivere. Solo all’approssimarsi della morte di lei, i due si incontreranno di nuovo.

L’intreccio si fonda su due temi fortissimi. Il primo riguarda il potere della parola scritta, strumento nel bene di salvezza e nel male di assoggettamento dell’individuo. Il secondo tocca il senso di colpa per ciò che di cattivo si è fatto. Ed è su questo che voglio concentrarmi.

La donna sa che è responsabile davanti alla legge dell’uccisione di molti innocenti ma non prova per il suo passato alcun senso di colpa. Il giovane, poi uomo, non è responsabile dell’uccisione di nessuno ma prova per quelle morti un fortissimo senso di colpa. Lui prova il senso della colpa in vece della donna. Lo percepisce tanto da finire per sentirsi responsabile delle sofferenze che lei ha inflitto agli ebrei prigionieri. Non si sente responsabile giuridicamente, ma storicamente. Lui “è” il popolo tedesco, responsabile collettivo delle colpe individuali di alcuni dei suoi componenti. Responsabile di una responsabilità che attraversa le generazioni e alla quale non si può sfuggire.

Per come mi hanno insegnato la Shoah, per come l’ho studiata io, per la passione che ho sempre provato per la storia europea, per il mio stesso essere uomo, da che ricordi mi sono sentito responsabile di quella tragedia. In questo non ho mai pensato di essere più libero di un tedesco solo perché italiano. E sapere di essere figlio o nipote di chi ha agito male non mi ha esonerato dal sentirmi investito dalla responsabilità storica di quelle azioni. In profondità, mi sono sempre chiesto se mai mi sarei “pulito” da quella macchia.

Ora, il punto è questo.
Quella percezione è in me ancora molto forte, ma non come in passato.
La macchia si è sbiadita col tempo, e senza che io sappia bene come e perché è avvenuto.
Ma diluendosi il senso di colpa, si annacquano anche il peso della responsabilità e l’orrore.
In altre parole, gli anticorpi che mi proteggono dal ricadere nel male.

Il mio macellaio è una persona gentile. Con la sua famiglia gestisce un piccolo market e vende carne, affettati e formaggi di qualità eccellente. Qualche tempo fa l’ho colto mentre “pedinava” dentro il negozio un cliente nordafricano. Gli ho chiesto perché lo faceva e mi ha risposto senza problemi che non si fidava. Ai cinesi lancia occhiate malevoli. I cinesi, qui a Tradate, formano una comunità numerosa e ormai radicata. Hanno diversi negozi e soprattutto l’emporio più grande delle Fornaci, nuovissimo centro commerciale. Al market scelgono velocemente, non schiamazzano, comprano e pagano sempre in contanti. Li ho visti con i miei occhi. Non c’è motivo per guardarli male. Non ne ho parlato con il macellaio, ma ammetto di essermi fatto in proposito un’opinione. Così come su tutti i rigurgiti di razzismo, leghista o meno, di cui si parla da qualche tempo a questa parte. E che non è prudente liquidare citando la rozzezza o l’ignoranza dei protagonisti.

Io penso che il senso di colpa si sia smarrito.
Scarsa o nulla conoscenza del passato. Egoismo. Rifiuto dei ricordi cattivi. Indisponibilità a dividere il peso degli errori dei nostri padri.
Tutti questi fattori agiscono nello spingerci a dimenticare quel che è stato.
E dimenticando ricadremo nel male di sempre.

martedì 4 maggio 2010

Padania ? No, grazie.

Ieri sera prima seduta del nuovo consiglio comunale di Saronno.
E prima evitabile figuraccia: al momento della costituzione dei gruppi consiliari, i consiglieri leghisti decidono che la denominazione del loro gruppo sarà "Lega Nord - Lega Lombarda per l'indipendenza della Padania".

Non sentivamo la mancanza di questa figura mitologica che risponde al nome di Padania.

La Padania: un non luogo geografico, un non luogo storico, un non luogo politico.
E, soprattutto, parlando di una sede istituzionale qual è il consiglio comunale, un non luogo costituzionale.

"La Repubblica, una e indivisibile", questo è l'incipit dell'articolo 5 della Costituzione; bene ha fatto il sindaco Luciano Porro a ricordarlo.

Non risulta che l'insigne costituzionalista bergamasco Roberto Calderoli abbia modificato l'articolo 5 della Costituzione prevedendo l'indipendenza della Padania, del Regno delle due Sicilie, del Ducato di Parma e Piacenza o dello Stato Pontificio.

E, visto che, da ora in avanti, all'inizio di ogni intervento, i consiglieri leghisti reciteranno come un mantra il nome del proprio gruppo, Lega Nord - Lega Lombarda per l'indipendenza della Padania, mi piacerebbe che gli altri consiglieri, di maggioranza come di minoranza, iniziassero i propri interventi dicendo: "La Repubblica, una e indivisibile".

Giusto per ricordare ai quattro consiglieri leghisti che siamo a Saronno (con la o finale), comune della Lombardia, regione dell'Italia.
E che il 25 aprile è la Festa della Liberazione dal fascismo degli italiani, tutti, da Trento a Palermo.

lunedì 3 maggio 2010

Stasera Consiglio Comunale. Parte l’Amministrazione Porro. Industria e Società: le sfide più attese.

Il debutto. L’Amministrazione Porro debutta stasera nella prima seduta del Consiglio Comunale di Saronno. Varata la Giunta, stasera verrà eletto il Presidente del Consiglio e quindi tutte le principali cariche istituzionali saranno assegnate.
Il Sindaco Porro illustrerà i tratti programmatici principali che orienteranno l’attività amministrativa.
Sono due i capitoli che suscitano molta attesa: quello riconducibile alla sviluppo industriale e quello che fa riferimento allo sviluppo sociale.

L’industria: “think small first”. “Pensare piccolo, anzitutto”. Il conio di questo slogan è autorevole: la Commissione Europea. Con l’approvazione dello Small Business Act la UE ha voluto statuire l’imprescindibilità di ogni politica economica da una concreta politica, a livello centrale quanto locale, a favore ed a sostegno della Piccola e Media Impresa. “… lo spirito imprenditoriale e la volontà di assumere rischi, ad esso associata, vanno applauditi dai responsabili politici e dai media e sostenuti nelle amministrazioni. Essere favorevole alle PMI deve divenire politicamente normale…”. E poi, ancora: “Lo Small Buisness Act mira perciò a migliorare l’approccio politico globale allo spirito imprenditoriale, ad ancorare irreversibilmente il principio del Pensare anzitutto in piccolo nei processi decisionali – dalla formulazione delle norme al pubblico servizio – e a promuovere la crescita delle PMI aiutandole ad affrontare i problemi che continuano a ostacolarne lo sviluppo”. (Paragr. 3 Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento Europeo, al Comitato Economico e Sociale Europeo al Comitato delle Regioni del 30.9.2008; scaricabile da www.sviluppoeconomico.gov.it).
La prima attesa quindi sul programma Porro è di individuarvi concrete tracce dell’approccio “Pensare piccolo, anzitutto” elaborato dalla UE. Il Saronnese è un territorio di industria manifatturiera di piccole e medie dimensioni. Queste industrie necessitano di strutture urbane adeguate, non sempre di competenza provinciale e spesso di competenza locale, ancorchè sovra comunale. Accanto al problema urbano ed infrastrutturale ci sono poi due questioni, che qui possono essere solo citate: il rispetto della legalità sul territorio, il mercato del lavoro locale e le strategie di concertazione tra formazione ed educazione professionale e realtà industriale.

La società: “città solidale”. Fuori da ogni equivoco un Città Solidale è quella realtà che rende “contendibile”, cioè accessibile, il diritto di cittadinanza, da intendersi non come un l’apposizione di un timbro su un documento anagrafico ma come l’inclusione spontanea e armoniosa in - e quindi il riconoscersi parte di - una comunità di persone. L’inclusione può avvenire se sono rispettate due condizioni: da un lato se si verifica la presenza della volontà di armonizzare il proprio vissuto con la mentalità e le abitudini sociali del luogo; dall’altro lato se si manifesta disponibilità ed accoglienza. L’inclusione sociale trova due potenti vettori nell’occupazione lavorativa e nella legalità percepita. L’occupazione lavorativa è frutto della capacità delle industrie presenti nel territorio di assorbire manodopera, motivo ulteriore perché l’amministrazione metta in cima alle proprie priorità le esigenze delle PMI. La legalità percepita è frutto dei comportamenti sociali. Una comunità non si riconosce soltanto nei principi fondanti espressi nei testi che normano le regole della convivenza (Costituzione, Statuto Comunale, …), ma soprattutto nella “costituzione di fatto o materiale”, risultante dei comportamenti sociali agiti dai residenti in un determinato luogo e dalla sua classe dirigente. Detto in altri termini può non essere sufficiente “rispettare le leggi” per essere “cittadino”, ancorchè il rispetto della legalità formale è da intendersi imprescindibile, posto che l’illegalità (senza distinzione di razza, di luogo di provenienza, di sesso, di etnia) è automaticamente un motivo di esclusione da ogni forma di civile convivenza. Esistono codici di comportamento non scritti, ma ugualmente e forse più noti, che hanno ugual valore di quelli scritti. Il successo delle politiche di inclusione e coesione sociale dell’Amministrazione Porro sarà frutto della sua capacità di dare un’interpretazione autentica ed una strategia politica a questi codici sociali, oggi forse più incisivi nel determinare i rapporti di convivenza tra individui delle norme scritte e formalizzate.

Pietro Insinnamo

giovedì 29 aprile 2010

Il dialogo sociale è un metodo da tutelare e promuovere. Ma Telos è un'altra questione.

Il “25 Aprile degli imbecilli” (come lo ha appellato Augusto Airoldi nel suo blog personale), ovvero la “sovversiva, fumogena e protestataria” (come l’ha definita il sottoscritto su Zone di Confine) azione di Telos alla celebrazione della Liberazione ha riportato alla cronaca vari temi e fatto riemergere diverse pulsioni, tra loro anche molto contrastanti, rispetto all’approccio che la politica dovrebbe seguire nell’affrontare la questione “centri sociali”.
Sempre da questo blog ho lanciato il mio personale pensiero riguardo l’opportunità, per l’Amministrazione Comunale, di non ricorrere al dialogo sociale per gestire il problema Telos e più in generale la problematica legata ai “centri sociali”, assunta nella sua accezione negativa.
Successivamente il Sindaco Luciano Porro ha annunciato l’intenzione di incontrare i ragazzi di Telos per “capire cosa vogliono fare anche nel rispetto delle regole”. Per altro questa volontà di Porro ben rappresenta il suo usuale approccio ad ogni questione, sempre basato sulla conoscenza diretta delle questioni e delle persone cui queste fanno riferimento.
Ritengo tuttavia che il ricorso al dialogo sociale vada circostanziato e contestualizzato, al fine di non fuorviarne il significato, non depotenziarne la capacità di produrre effetti positivi e non derubricarlo a sterile pratica democratica priva di efficacia. Una riflessione pacata sulle dinamiche sottostanti le pulsioni sociali di Telos potrebbe aiutare a discernere le situazioni e le circostanze nelle quali il dialogo sociale, se correttamente attivato, può costituire la strada maestra per la soluzione delle questioni e la ricomposizione delle posizioni, dalle situazioni in cui venendo meno i presupposti di dialogo il ricorso allo stesso produrrebbe una cronicizzazione delle questioni.

È comprensibile che l’Amministrazione di centrosinistra adotti il metodo del dialogo nella gestione della “questione giovanile”, lanciando ad esempio tavoli di concertazione delle politiche giovanili, organizzando momenti di consultazione e di ascolto, promuovendo iniziative e collaborazioni partecipate, o quant’altro sia ascrivibile al capitolo partecipazione e coinvolgimento. Può non essere condivisibile come scelta politica, ma certamente ha un suo valore intrinseco.
La specifica questione di Telos però sfugge a queste circostanze. Telos non è un paragrafo del capitolo “questione giovanile”. Dissento da chi sostiene, pur condannando le azioni illegali, che dietro Telos si annida un disagio che va capito e intercettato. Ritengo Telos un paragrafo del capitolo “sovversione”. Per altro l’opposizione al dialogo è venuta, almeno fino ad oggi, proprio da Telos. L’uso del dialogo in questa specifica circostanza produrrebbe l’effetto di rendere isteriche le parti, a meno che una delle due ceda. Ma è accettabile che a Telos venga assegnata la dignità di “parte” dialogante con l’Amministrazione Comunale? Telos rappresenta un interesse collettivo, generale, diffuso oppure solo se stesso? Telos è espressione del disagio giovanile? Io credo di no. Credo che manchino i presupposti per ricorre ad un dialogo costruttivo.

Il dialogo sociale è la risultante di un continuo processo di maturazione delle parti coinvolte, che si alimenta di reciproca legittimazione e di convergenza di interessi, nel rispetto delle divergenze di opinione e di ruolo. L’apertura di un tavolo di dialogo comporta la condivisione non solo del metodo, ma la disponibilità a concorrere ad una discussione che assuma come legittime e lecite le motivazioni dell’altra parte. Il mancato riconoscimento della legittimità delle ragioni dell’altra parte non porta al dialogo, ma a qualcosa di diverso che, tanto per dare un’immagine, il linguaggio giuridico chiama “dibattimento”. La legittimità delle motivazioni e delle questioni non è pertanto un fattore imprescindibile nella valutazione dell’opportunità ad attivare un canale di dialogo, bensì costituisce uno degli elementi fondanti del dialogo sociale. Diversamente chiunque, in modo scriteriato ed arbitrario, avrebbe la possibilità di accedere impunemente al tavolo di dialogo. Ma questo comporterebbe uno svilimento del dialogo stesso, che verrebbe percepito non più come la modalità assunta dalle parti sociali per regolare e alimentare i loro rapporti in regime di reciprocità, ma come uno sfogatoio nel quale affogare e far convergere tutte e qualsiasi questioni di dissenso, di rifiuto, di avversione, di sovversione.

Pietro Insinnamo
"OBBEDIENTI IN PIEDI"

"Obbedienti in piedi": questa citazione di Vittorio Bachelet ci indica il giusto modo in cui il credente deve porsi nei confronti della Chiesa, soprattutto se impegnato in politica.
In questi ultimi anni, si direbbe quasi che nella politica è di moda essere cattolici: è di moda sbandierare i valori del cristianesimo; è di moda rincorrere la posizioni dei vescovi o addirittura del Papa, facendole proprie; è di moda corteggiare la Chiesa mettendola dalla propria parte.
E' un'obbedienza strisciante, quella di molti politici cattolici, un'obbedienza che non parte da una convinzione ma da un interesse.
E spesso alla Chiesa fa comodo: purtroppo anche lei molte volte ha rinunciato ad alzare la sua voce per quel piatto di lenticchie rappresentato da quattro soldi per le scuole private.
Ma la vera obbedienza che dovrebbe pretendere la Chiesa e che i credenti dovrebbero assicurare è quell' obbedienza in piedi di cui parlava Bachelet. Che significa, in pratica, vivere gli insegnamenti della Chiesa ma ragionando su di essi, declinandoli nella realtà in cui si vive in modo da garantire in ogni situazione il bene migliore, anzi il bene comune.
Ma oggi i cattolici sono in grado di vivere questa obbedienza in piedi?
Io come credente, non mi sento certo rappresentata da partiti come l'UDC, che vivono la politica in modo confessionale, nè tanto meno dalla Lega, così attenta a proporre e difendere le tradizioni del Cristianesimo, nè da Berlusconi, che non perde occasioni per mostrare la sua "cattolicità".
E i cattolici del PD dove sono finiti? Sono stati divorati dai comunisti che hanno preso il sopravvento? In verità, non c'è stata nessuna invasione....semplicemente tanti di noi si sono ritirati, stanchi di una politica che partorisce solo conflitti, povera di idee e di progetti sigificativi. Qui, lasciando da parte la parola obbediente, bisognerebbe dire: "Cattolici del PD, in piedi!". Ma non per rivendicare, come spesso si fa, vecchie appartenenze, ma per dare un coraggioso contributo a questo PD, che di coraggio non ne ha.

lunedì 26 aprile 2010

C'è un integralismo laico?

Caro Airoldi, sul blog “zone di confine” lei si definisce “un cattolico che crede nella distinzione dei piani tra fede e politica”. Se capisco bene, crede nella laicità della politica, non è un integralista clericale. Mi permetta allora una domanda: siete solo voi cattolici ad essere sotto “esame di laicità” o lo sono anche i politici non credenti? Intendo: se un politico non credente che riveste un ruolo istituzionale rifiutasse di presenziare alla parte religiosa di una manifestazione pubblica che lo vede invitato, lei come lo definirebbe: laico o laico-integralista?.
Un cordiale saluto.
Ettore Frangipane

(via e_mail)

Egregio Frangipane, innanzitutto grazie per l’attenzione che riserva a questo blog che, come avrà visto, è gestito comunitariamente. Intendo quindi la sua domanda rivolta non personalmente a me, ma a tutti gli autori. Tra l’altro, non tutti credenti.

Provo, per quanto mi riguarda e nel poco spazio concesso ad un post, a rispondere ai molti, interessanti temi sottesi alla sua domanda.
Si, come Lazzati ha insegnato e il magistero della Chiesa ha acquisito, credo che fede e politica siano su piani distinti. Ancorché non disgiunti. Da qui deriva la libertà per un credente di scegliere l’opzione politica che più ritiene capace di operare per il bene comune nella situazione data. La politica non è il luogo del bene assoluto, ma del miglior bene possibile in un contesto dato. Vorrei quindi tranquillizzarla: non mi sento affatto sotto esame.

Intendo l’integralismo una forma mentis. A mio avviso, deteriore. Che sia praticato da politici di destra o di sinistra, da cristiani, non credenti o diversamente credenti, poco cambia. E’ sempre fautore di probabili disastri.

E vengo al cuore della sua domanda. Chi ricopre un qualsiasi ruolo istituzionale, accetta di rappresentare i cittadini, tutti i cittadini che quel ruolo comporta, “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (Costituzione della Repubblica - art 3). Qualsiasi politico informi un proprio comportamento a principi diversi da questi, tradisce la lettera e lo spirito della Costituzione.

Diversamente detto. Ce lo vede lei un Sindaco che partecipa ad un appuntamento pubblico solo se non comprende momenti religiosi cristiano-cattolici? Un altro che non vi partecipa se vi sono momenti della religione ebraica? Un altro ancora che non partecipa a momenti di culto islamico? Un altro ancora che nega la sua presenza a qualsiasi culto religioso che fosse parte di un momento pubblico? E magari, nella sua città, ci sono cristiani, ebrei, musulmani e non credenti. Sarebbe una babele.

Come vede, egregio Frangipane, a mio avviso l’integralismo non ha colore politico. E neppure fede religiosa. Ma, soprattutto, sconfessa il principio di laicità.

Grazie e continui a seguire il nostro blog.

TELOSconsiglio. il Centrosinistra molli i centri sociali al loro destino, l’emarginazione.

Si sono fatti riconoscere. Ancora una volta quelli di Telos (i ragazzotti saronnesi protagonisti di varie e sgangherate occupazioni abusive di capannoni privati), come anime in pena che non trovano pace, in completa balia delle proprie ansie di sovversione, alieni da ogni senso di responsabilità e da ogni auspicabile ambizione ad integrarsi nei meccanismi della civile convivenza, hanno mostrato il peggio di sé, messo in vetrina la loro “alternatività”, il loro “essere diversi”, il loro “rifiuto del sistema”, la loro fumogena e protestataria presenza. Sessantottini del terzo millennio, figli putativi dei sessantottini del secondo millennio.
Ho apprezzato la scelta di non accodare bandiere di partito al corteo per la celebrazione della Festa della Liberazione. Festa di tutti, non di una parte politica più della altre.
Mi permetto di dare uno “sconsiglio” alla nascente Amministrazione saronnese di centrosinistra: non sia indulgente con i Telos e loro simili. Prenda posizione, anticipi gli eventi, non aspetti che la questione dei centri sociali diventi tale esplodendo con il suo carico di contrasti e dissidi che sempre porta con sé. Non usi lo strumento del dialogo sociale in questa circostanza, con gli “alternativi al sistema” non serve. Faccia anzi capire che il loro modo di essere, di pensare, di proporsi non trova diritto di cittadinanza e di tolleranza né a destra (scontato), né al centro (ovvio), né a sinistra (per niente scontato né ovvio). Se vuoi che una fiamma si spenga togliele ossigeno… perché se non lo fai allora passi dalla parte degli incendiari.

Pietro Insinnamo

venerdì 23 aprile 2010

Il boss è solo

"Altrimenti che fai, mi cacci?!". E' la frase con cui Fini si è rivolto in modo plateale a Berlusconi. Non è solo una frase, è una sfida. La sfida di un uomo fermo, convinto, determinato a non cedere, a non farsi intimorire, a non provare soggezione di Berlusconi. Questà è la vera novità politica di quanto sta accadendo nel PdL: la rottura dei due leader certifica che è possibile non provare alcuna soggezione di Berlusconi, non subire la sua tracotanza, il suo ascendente, la sua protervia, anche senza militare nel centrosinistra. Anzi, dal centrosinsitra mai nessuno ha avuto la forza, la credibilità a l'autenticità di affondare su Berlusconi così come ha fatto Fini.

"La musica è finita, gli amici se ne vanno". La frase non appartiene a Fini, ma è ugualmente celebre. Il nucleo titanico del Polo delle Libertà del 1994 si è dissolto, disgregato, diviso. Casini ha mollato Berlusconi già da due anni. Fini gli sta facendo masticare amaro, quasi avesse colmato una misura di attesa e pazienza che sembrava inesauribile. Bossi? Bossi ha già tradito. Proprio nel 1994. E' pacifico che il rapporto che lega Bossi e Berlusconi non ha solo contnuto e ragioni politiche. Ci sono interessi economici, assetti di potere, equilibri sociali, posti e poltrone che rendono recirpocamente interessante il rapporto tra i due. Ma Bossi non è disposto a morire per - e con - Berlusconi. L'ha già tradito una volta. Lo farà di nuovo se il vantaggio del tradimento sarà maggiore del profitto ad essergli fedele. Via Casini, Fini contro, Bossi cane sciolto... per Berlusconi la musica sta finendo.

Consenso e ragione. Voglio chidure lanciando e condividendo una riflessione. Credo che vada distinto il consenso politico dalla ragione delle idee. Riscuotere consenso non equivale ad avere ragione delle idee. La non equivalenza tra consenso e ragione è stata magnificata dalla Direzione Nazionale del PdL di giovedì. Fini, un leader solo con le proprie idee, non ha consenso all'interno del PdL, conta meno del 10%. Ma la forza del suo 7% sta nelle idee che ha, molto più forti del consenso numerico che esse potrebbero avere e soprattutto capaci di mettere in difficoltà Berlusconi e il suo consenso del 93%. Idee che personalmente apprezzo per la coerenza ma non sempre condivido, soprattutto sui temi etici. Comunque sia, anche in questo passaggio, cioè nella certificazione che la ragione delle idee può competere con la forza del consenso (che in una democrazia mediatica spesso degrada nel populilsmo sia a destra che a sinistra), sta una novità positiva di quanto sta accadendo nel PdL e sopratutto sta un chiaro segnale della nascente solitudine del boss.

Ricerca della verità e libertà (anche nella Chiesa)

Ricerca della verità e libertà hanno molto a che fare l’una con l’altra, in ogni campo della convivenza umana.

È vero per l’arte, la cultura e la scienza: non si raggiungono alte vette espressive, non si esplorano a fondo i meandri dell’animo, non si sondano le leggi costitutive dell’universo se non si è liberi di sperimentare e cercare.
È vero nel campo dei rapporti sociali. Senza libertà, giocata nell’eguaglianza e nel rispetto dei diritti di ognuno, nessun uomo può mostrare agli altri il suo reale volto. E probabilmente vivremmo ancora in un mondo di appartenenze e ceti prescritti alla nascita: un mondo di maschere, dove non ci sarebbe nemmeno concesso decidere quale maschera indossare.
Ambiente di lavoro, famiglia, scuola: oggi possiamo scegliere cosa vogliamo essere e lottare per diventarlo. A guidarci è la ricerca di un’espressione personale più vera e completa. Ricerca che nemmeno inizierebbe se non avessimo ormai radicato dentro il sentimento della nostra libertà. Una libertà costitutiva, definitiva e incoercibile. Una libertà da uomini.

Di tante osservazioni connesse alla tempesta che in queste settimane coinvolge la Chiesa, voglio proporne una attinente alle affermazioni appena fatte.
Non ho motivo di credere che a Roma la ricerca della verità sia possibile, completa e autentica se non accompagnata dalla libertà delle persone che la praticano e del sistema in cui quelle persone agiscono.
Tanto meno credo che, in assenza di tale libertà, la ricerca della verità possa diventare patrimonio dell’intera comunità dei fedeli e dunque “metodo” condiviso per una Chiesa più ricca e feconda.

Questa libertà attualmente non c’è. Non c’è perché il funzionamento della Chiesa si basa su una tradizione bimillenaria che va in direzione opposta. Essa è fondata sull’obbedienza, sul culto della riservatezza e del segreto curiale, sull’ossequio gerarchico, sulla lotta contro ogni voce dissidente, sull’autorità del dogma.
Questi fattori hanno contribuito in misura determinante all’eccezionale longevità della Chiesa stessa ma hanno poco a che vedere con la ricerca di una verità autonoma sulle cose dell’uomo. Sono anzi suoi nemici dichiarati, da sempre: e oggi la verità ufficiale che scende dall’alto non è più sufficiente a tenere coesa l’assemblea dei credenti.

Uomini e donne pretendono da chi li governa un rendiconto delle loro azioni. Questa pratica si chiama democrazia ed è, in politica, ciò che più si avvicina alla realizzazione del principio sopra esposto.
La libertà di scegliersi i governanti è strettamente connessa al compito di questi ultimi: cercare la verità di rapporti sociali più autentici e soddisfacenti per tutti. Dove manca tale libertà, il potere spesso si arrocca in un angolo, con conseguenze deleterie e non di rado tragiche. E pur con tutte le sue brutture, la democrazia è al momento il meglio che abbiamo a disposizione per praticare una libertà degna di questo nome.

Nella Chiesa non c’è democrazia. Alla Chiesa la democrazia serve. Non solo perché viviamo in un’epoca che ha fatto a pezzi il principio gerarchico e dell’insofferenza contro l’autorità un tratto costitutivo. Le serve, molto di più, per dare purezza e autorevolezza al messaggio di Cristo. In pericolo non è, non è stata e non sarà l’esistenza della Chiesa, che è solo messaggera. In pericolo è il messaggio. Le gerarchie ecclesiastiche devono abbracciare la libertà, perché solo una maggiore libertà nella pratica pubblica dei loro compiti permetterà alla Chiesa di incarnare credibilmente il ruolo affidatole da Cristo.

Concludo con una richiesta ai fedeli cattolici. Si facciano sentire. In queste settimane abbiamo ascoltato e visto vescovi e conferenze episcopali fare coming out sulla questione pedofilia. Hanno parlato perché sapevano che la società non avrebbe tollerato ulteriormente il silenzio. E con questa concessione all’opinione pubblica hanno ancora una volta salvato il sistema verticistico di cui fanno parte.
Ma i veri autori della Chiesa sono i fedeli e i fedeli mantengono un clamoroso silenzio. Per conoscenza diretta di sacerdoti e credenti so quanto sia scomodo per molti l’attuale momento e indigesto il comportamento delle gerarchie. Perché questi credenti non parlano? Perché nessun fedele scrive sui muri che sviare, sminuire e mistificare sono contro Cristo? Perché nessuno si alza in chiesa, la domenica, e grida che anche a Roma è possibile una rivoluzione?

giovedì 22 aprile 2010

La prima volta dell’impedito

E venne quel giorno. Anche per Berlusconi. Per la prima volta contestato. Accusato. Segnato a dito. In pubblico. Costretto a difendersi e a contrattaccare. Maldestramente. Non da un avversario politico. Non da uno al quale può dare del comunista. O del cattocomunista. Ma dal fondatore, assieme a lui, del medesimo partito. Ora terza carica dello Stato.

Il confronto è stato duro. A tratti aspro e perfino sgarbato. “Devi lasciare”. “Che fai, mi cacci?”. Al momento non sappiamo dove porterà. Non sappiamo se quella di Fini è strategia o più modestamente tattica. Certo 11 contrari e un astenuto sul documento finale non danno ragione di quanto accaduto. Perchè nulla sarà più come prima. Dentro il PdL e non solo. E probabilmente, di Fini, sentiremo parlare ancora a lungo.

Non basterà un altro predellino per ridare smalto all’azione del Presidente del Consiglio. La direzione nazionale di oggi ha reso il PdL meno distante da un partito normale. E per questo ha segnato una tappa irreversibile nella parabola discendente di Silvio Berlusconi. Un avvicinamento verso la sua uscita di scena. Perchè Berlusconi non può tollerare un altrpo da se che la pensi diversmante da lui. E lo obblighi ad un dibattito pubblico.

Sapranno, gli italiani, trarre opportune conseguenze dallo spettacolo indecoroso andato in scena oggi? Saprà il PD farne tesoro?

martedì 20 aprile 2010

Il controllo della politica: potere di nomina e logica clientelare

La questione: le differenze tra pubblico e privatoUno degli argomenti che più di altri spesso catalizza l'attenzione nel confronto tra pubblico e privato è l'efficienza. Si è soliti dire che il privato è più efficiente del pubblico, e che questa efficienza è agita da fattori quali la proprietà privata dei mezzi di produzione, dalla possibilità di lucrare un profitto, ovvero dal rischio di fallimento. Dinamiche motivazionali, spinte efficientiste e processi di responsabilizzazione del personale sono effettivamente più forti nelle organizzazioni private che in quelle pubbliche. La diversa intensità con cui questi fenomeni agiscono nelle organizzazioni pubbliche e private genera una forbice tra il diverso rendimento di quest'ultime, particolarmente evidente nei settori che vedono pubblico e privato agire come concorrenti: sanità e istruzione. A volte, addirittura, la differenza è tale che il pubblico, e i suoi sostenitori, percepiscono il privato come una minaccia per la propria sopravvivenza. Procedendo su tale ragionamento, comunque fondato, la differenza nella qualità del servizio reso (si pensi alla sanità) determina, attraverso la politica dei prezzi e delle tariffe, una segmentazione dell'utenza in due categorie: i pochi-danarosi-semplici e i tanti-meno abbienti-critici. Come è possibile? E, soprattutto, come intervenire senza cedere alla tentazione di mettere in contrapposizione pubblico e privato?

Come è possibile: il clientelismo.
Pubblico e privato sono soggetti alla stessa patologia: il clientelismo.
Il clientelismo, o logica clientelare, è lo strumento che ha la politica, una parte non nobile della politica, di controllare l'economia per finalità ed interessi particolari. La logica clientelare è manovrata attraverso il potere di nomina. Il politico che nomina, o favorisce la nomina, di un dirigente o di un operatore in un'azienda, pubblica o privata, mette il "nominato" nelle condizioni di "mostrargli la propria gratitudine". Gratitudine che, ben inteso, condizionerà il suo lavoro nell'organizzazione nella quale è stato nominato. Il potere di nomina, con le clientele che ne seguono, colpisce sia le organizzazioni pubbliche (Enti, Aziende Sanitarie, Aziende Ospedaliere, ecc...), sia le organizzazioni private (Banche, l'ha scoperto anche Bossi!). L'incursione della politica nel funzionamento delle organizzazioni pubbliche e private, in settori delicati come quello della sanità, produce effetti distorsivi nel loro funzionamento, favorendo gli interessi particolari a scapito di quelli collettivi. Il ricordo della Clinica Santa Rita può valere come esempio.

Come intervenire: chiarire la committenza.
Spesso le persone nominate e "clientelizzate" possiedono le competenze per occupare i posti ai quali vengono assegnate. L'elemento distorto non è il loro curriculum, ma la committenza. Il committente, colui che dà il mandato e verso cui l'incaricato si obbliga integralmente, deve coincidere con l'organizzazione per i cui interessi egli deve agire. Non è un fatto secondario o marginale. Significa togliere alla politica, alla sua parte meno nobile, il potere di controllare i settori più delicati orientandone i livelli di prestazione per finalità particolari, non sempre coincidenti con l'interesse generale. Significa impedire che si generi lo scontro tra sanità pubblica e privata, posto che entrambe devono potersi organizzare autonomamente, senza beneficiare di rendite di posizione e senza pagare il prezzo di privilegi concessi ad altri. E' un discorso molto più pratico di quanto possa sembrare. E per questo molto complesso da teorizzare.

Pietro Insinnamo

lunedì 19 aprile 2010

Leva fiscale e politica industriale, uscire dal guado

Non credo che il problema dell'equilibrio del bilancio dello Stato e degli Enti Locali possa trovare soluzione strutturale e definitiva nella lotta all'evasione. E' sacrosanto, condivisibile e difendibile il principio, teorico e pratico, che alle necessità della collettività concorrano tutti i cittadini in ragione della propria reale capacità contributiva. Il punto per me focale è però un altro. Lo Stato e gli Enti Locali devono "budgetare" le uscite in ragione di quanto prevedono, con ragionevole certezza, di introitare. Quanto è certo l'incasso derivante dalla lotta all'evasione? Quanto questa lotta può essere presa a riferimento per determinare i livelli di spesa sostenibili? L'evasione va combattuta, ma non può costituire l'unica strategia (e forse neanche quella prevalente) per il finanziamento delle spese correnti. Va semmai messa a fuoco l'equazione esistente tra spesa - gettito e tra reddito - produzione: l'entità del gettito, che determina il livello della spesa sostenibile, è funzione dell'entità del reddito, determinato da quanto un'economia produce. Più un sistema economico produce, in termini di ricchezza, maggiore è la quota che esso può destinare alle necessità collettive. Un'economia depressa sarà sistematicamente compressa tra l'incudine del debito e il martello dei tagli alla spesa. Un'economia caratterizzata da stabile crescita, direi virtuosa, può trovare nel valore aggiunto prodotto la via per svincolarsi dalla morsa dei tagli e del debito, senza ricorrere alle chimere delle alchimie contabili. Certo serve una politica che favorisca, culturalmente prima che ancora che negli atti formali, l'industria. Una politica industriale che ponga le condizioni strutturali, strategiche, infrastrutturali, culturali per consentire alle imprese di "produrre ricchezza" in senso lato, con effetti a cascata in termini di ricadute sociali prima ancora che economiche. Svilupperò ulteriormente il ragionamento, non prima di avere messo in evidenza, in un prossimo post, il tema del "controllo esercitato dalla politica sull'economia: potere di nomina, diritto di clientela".

Pietro Insinnamo

domenica 18 aprile 2010

BILANCIO PUBBLICO E RAPPORTO PUBBLICO-PRIVATO
Con riferimento alle mie riflessioni sul Patto di Stabilità, Pietro sottolinea due aspetti: A) il dilemma tra tagliare le spese pubbliche o contrarre nuovi debiti. B) la devoluzione al privato del “ centro di interessi economico sociali”, mediante trasferimento “non regolato” di componenti della spesa pubblica, dal pubblico al privato.
I) Alternativa tra contrarre le spese o aumentare i debiti. La risposta dovrebbe essere: puntare sempre ad un equilibrio di bilancio, che consiste nell’avere, tendenzialmente, il C/Economico in pareggio e Debiti per ammontare compatibile con le entrate proprie. Questi criteri non sono nuovi né sconosciuti agli amministratori attuali. Esistono già le regole che vincolano gli Enti locali a debiti che non siano superiori a determinati limiti(15% entrate correnti) e anche pressioni per scongiurare deficit correnti a ripetizione ( patto di stabilità). Il problema è che da un lato si mettono le mani avanti dicendo che i guai amministrativi sono eredità di altri e quindi si chiede di essere esentati dai prezzi del riaggiustamento. Dall’altro è innegabile una tendenza generalizzata ad aggirare le regole: molti pseudo “ Avanzi di Amministrazione gestionali” sono il risultato di manipolazioni delle regole contabili, fatte per aggirare i vincoli imposti. In questo caso è il controllo che difetta e le sanzioni sono grida manzoniane in un Paese governato da Politici che spendono molta energia a combattere regole e istituzioni che devono farle applicare. Come si devono interpretare i giudizi “generici” sulla esosità del fisco, espressi non al bar ma nei palazzi istituzionali? E le sparate contro la magistratura? E i condoni a ripetizione? Il primo e più urgente lavoro da fare, allora, è ripristinare il senso della “ legalità”. Ogni legge può e deve essere discussa nelle sedi appropriate, anche per stimolarne il cambiamento, ma va sempre rispettata, sia per quanto dispone che per i modi con cui è lecito discuterne. I grandi paesi del capitalismo ( USA e Inghilterra), in queste cose, sono ineccepibili. Questo dovrebbe valere anche per il PD.

II) Trasferimento ai privati di spese per servizi pubblici: “privatizzazioni” estranee alla logica del “mercato”. Il tema, per come lo si osserva da noi, va riformulato nei seguenti termini: avendo l’obiettivo di “ privatizzare” determinati servizi sociali per sottrarli ad ogni regola “pubblica”, la via che si segue è “ marginalizzare” il pubblico per rendere inevitabile il privato. Per esemplificare si può fare il caso della sanità. In Lombardia si ha la percezione che gli Ospedali pubblici sono “trascurati” a vantaggio delle Cliniche “accreditate”. Uno dei migliori esperti del settore, Francesco Longo, spiega che la sanità insieme ai servizi sociali, pesa per il 12,5% del PIL. In assoluto è il settore più importante dell’economia. Su 140 miliardi di euro di spesa complessiva, la parte pubblica pesa 105 miliardi ed ha un deficit modesto del 3-4% concentrato per l’80% tra Lazio, Sicilia e Campania. La sanità è una delle principali leve di sviluppo, produce occupazione, lavoro qualificato non delocalizzabile, ricerca. Insomma non ci sarebbe motivo per non vedere il Servizio Sanitario Nazionale come istituzione altamente positiva. Da noi invece se ne parla come un peso per l’economia manifatturiera. Perché? Ci sono diverse ragioni. Ne accenno alcune. Primo: i privati nel mercato sanitario. Il mercato sanitario italiano è il terzo d’Europa: il privato con 9 specialità spiega il 70-80% del fatturato, il pubblico con le stesse specialità spiega il 30%. E’ vantaggioso per il privato avere un mercato redditizio, con committenza “pubblica” assicurata e senza obbligo di funzioni “assistenziali”. Secondo: le grandi Istituzioni non pubbliche nel mercato sanitario. La Conferenza Episcopale Cattolica americana e i Sindacati di settore si sono dichiarati contrari alla riforma sanitaria varata dal Presidente Obama. La motivazione di sostanza è il conflitto di interesse : la Chiesa cattolica è uno dei più grandi imprenditori privati del settore ed è l’Istituzione che riserva a sé l’intervento assistenziale per i cittadini che non sono assicurati, i poveri. Anche da noi la Gerarchia vedrebbe bene una sua legittimazione, attraverso la Caritas, quale “intervento caritativo di ultima istanza” ( F.L.). Quanto ai Sindacati USA hanno lavoratori assicurati; i non iscritti al sindacato non sono assicurati. Obama pensa, invece, che tutti debbano essere cittadini a pieni diritti, compreso il diritto alla cura sanitaria, che da noi è garantita dal Servizio sanitario nazionale. Questo dovrebbe essere un punto “non negoziabile della politica del PD”.
Su come si dovrebbe governare il rapporto pubblico-privato “senza degradare in vecchi antagonismi pubblico – privato” ( Pietro), proverò a dare qualche indicazione più avanti.
Mario Santo 18/04/2010

sabato 17 aprile 2010

Il desiderio del bene...

Ieri leggevo un bel commento sul Vangelo dei cinque pani e due pesci: 5000 persone da sfamare, gli apostoli non sanno cosa fare, e si presenta a Gesù un ragazzino che offre quello che aveva, cinque pani e due pesci, appunto....il commento non si soffermava sul miracolo di Gesù ma sulla generosità di questo ragazzino. Diceva il testo: "C'è un ragazzo con del pane d'orzo, segno di povertà e di essenzialità, ma soprattutto c'è la sua disponibilità a dare tutto, con il rischio di rimanere a digiuno pur di mettere a disposizione ciò che ha. La fiducia nel Maestro supera i morsi della sua giovane fame, il desiderio di aiutare travalica qualsiasi incredulità".
Mi hanno molto colpito queste parole e le ho riferite all'impegno politico: in questi mesi più che mai, impegnarsi nel PD è una grande delusione. Anche ieri sera, alla Direzione provinciale, che sconforto nel sentire i vari interventi, a partire dal Segretario provinciale: non c'è la minima voglia di cambiare, di voltare pagina, di provare a fare qualche cosa di diverso. Ieri sera sono tornata a casa arrabbiata, sconfortata. Ma chi me lo fa fare? Tanto a che serve tutto ciò?
Poi oggi ho riletto queste parole. Se davvero il desiderio di fare della politica un servizio, lavorare in questo mondo con competenza e passione per servire la società, e in primo luogo gli ultimi, non rassegnarsi davanti a ciò che vediamo, se questo desiderio superasse la nostra incredulità di poter contribuire, nel nostro piccolo, al miglioramento della società, allora forse, invece che lasciare tutto nelle mani dei soliti furbi, troveremmo anche noi la forza per reagire e cambiare noi per primi il passo di una politica sempre più lontana dalla persona.
Sono due le grandi tentazioni che dobbiamo quindi superare. La tentazione di credere di non poter cambiare nulla perchè siamo troppo piccoli, troppo deboli e i nostri sforzi non servirebbero a niente. E la tentazione di lasciare che lo scoraggiamento e la delusione superino il nostro desiderio di bene. Dovremmo prendere esempio da quel ragazzino, che quella lontana sera di 2000 anni fa, ebbe il coraggio di fare un passo avanti e permise il miracolo....Anche questo PD, affinchè avvenga il miracolo della sua rinascita, ha bisogno di persone così, persone animate da quel desiderio di bene che travalica ogni difficoltà!

Maria Angela Monti

giovedì 15 aprile 2010

Torno sul problema del Patto di stabilità, stimolato dalla manifestazione di protesta, di giovedì 8 aprile, guidata dal sindaco leghista Attilio Fontana di Varese. In proposito, osservo che anche l’attuale presidente della Provincia Galli, ogni volta che è messo a confronto con le contraddizioni del bilancio provinciale, grida contro Roma ladrona – peraltro controllata da esponenti della Lega- che sottrarrebbe soldi alla Lombardia per darli ad altri.
Il bilancio della Provincia, come ricordavo nel precedente mio intervento, mette assieme : deficit correnti e debiti in aumento. Questo mix fa a pugni con il preteso rispetto del patto di stabilità. Il vero problema è che neppure la vituperata Roma sembra disporre delle risorse finanziarie che pure avrebbe diritto ad incassare. Giorni fa sono stati pubblicati gli ultimi dati elaborati delle dichiarazioni dei redditi dei contribuenti italiani. Il 90% dei contribuenti ha denunciato una base imponibile sotto i 15.000 euro. Del restante 10% almeno l’80% è costituito da lavoratori dipendenti. Non dimentichiamo, infine, che circa il 25% degli italiani dichiara addirittura di non avere materia imponibile. Dunque il nostro o è un paese di poveri diavoli del terzo mondo oppure tiri ognuno la conclusione. Forse siamo, per qualche ragione, dei diversi. The Economist, autorevole rivista di destra inglese, ragionando sulla necessità che l’Inghilterra ha di uscire, con misure straordinarie, dal disastro finanziario mondiale, per il quale ha qualche responsabilità, riferisce che: “ Britain has always paid its debts; investors don’t yet doubt the ability of a British government to get a fiscal grip after the election; and Britons tend to pay their taxes. “ Qui sta la differenza: gli Inglesi “tendono a pagare le loro tasse”. È su questa considerazione che dovrebbe soffermarsi la Lega Nord.
Il problema del Patto di Stabilità consiste, in gran parte, nel fatto che tanta parte della cittadinanza, del Sud come del Nord, si sottrae al dovere di pagare le proprie tasse. Di conseguenza nei bilanci pubblici ci sono entrate insufficienti a coprire i costi. Questo, naturalmente, non vuol dire negare diffuse pratiche di pessima amministrazione. Fontana, allora, farebbe meglio a protestare contro l’evasione che c’è e guidare manifestazioni per chiedere al governo, su cui ha influenza sicura, di esigere il rispetto del dovere fiscale. Quanto ai nostri del centrosinistra, si associno pure alla proteste leghiste contro le rigidità del Patto di Stabilità, ma dedichino un pò del loro tempo anche a ragionare sulle storture dell’attuale sistema impositivo.

mercoledì 14 aprile 2010

Saronno: Porro e il Centrosinistra, Gilli e il Centrodestra. Qualcosa in comune?

Le vittorie Porro e Gilli
E' prossimo l'insediamento dell'Amministrazione Porro a Saronno, recente trionfatrice alle amministrative. Il clima di entusiasmo, di diffuso e benevolo consenso che accompagna questa elezione presenta alcune interessanti analogie con il medesimo clima che si respirò in Città nel 1999, quando a vincere sull'onda dell'entusiasmo e del traino personale fu Gilli.

Nuovismo, civismo
Ora come allora la coalizione vincitrice ha caratterizzato la propria candidatura a guida della Città come il "nuovo" contro il "vecchio". Il Gilli del 1999, fino ad allora figura di retroguardia nell'arcipelago democristiano, si propose e venne percepito come un punto di discontinuità e di rottura col passato. Il Porro di oggi, benchè di lungo trascorso politico, ha riscosso un notevole credito di consenso come portatore di un modo nuovo di amministrare la Città, in discontinuità con il metodo - Gilli degli ultimi 10 anni. Sia Gilli nel 1999 che Porro nel 2010 hanno, fin dagli slogan, messo al centro del proprio messaggio mediatico la Saronno-Città. Emblematico il "Viva Saronno Viva" con il quale Gilli tappezzò la Città 11 anni fa; evocativo di una analoga centralità il "AmiAmo Saronno" di Porro nel 2010. Gilli poi, a conferma della propensione a privilegiare la dimensione civica su quella politica, nel 1999 si presentò come espressione di una lista civica (Unione Saronnese di Centro). Porro ha a lungo militato in una lista civica e, giusto osservalo, il suo partito (PD) ha presentato una lista copiosamente farcita di persone provenienti dall'esperienza civica. Insomma: effetto annuncio, "nuovismo", "civismo". Questi i tratti della campagna Porro che trovano analogie e similitudini con la campagna Gilli del 1999.

Coerenza, successo
Il centrodestra di Gilli seppe dare seguito e contenuto, a prescindere da come la si pensi, alle attese generate nella campagna del 1999. La prima amministrazione Gilli modificò a trecentosessanta gradi il modo di comunicare dell'Amministrazione, il modo di gestire la leva mediatica. Se questo poi si tradusse in cambiamenti positivi di sostanza è difficile dirlo. Sicuramente l'elettorato premiò la prima Amministrazione Gilli, ritenendo che essa avesse corrisposto alle proprie attese. Ora tocca a Luciano Porro e ai suoi dare seguito ai propositi di campagna elettorale. Nei modi e nei contenuti. Anche nell'affrontare questa sfida di coerenza con se stessi Porro e Gilli rischiano di trovare qualcosa in comune.