Sei interessato a discutere di società e politica? Qui puoi farlo con noi e con chi lo desidera. Con il solo limite del rispetto reciproco. Augusto, Mario, Mattia, Maurizio e Pietro ti danno il benvenuto.

venerdì 19 febbraio 2010

Questo liberismo non ci piace, meglio un sistema decentrato: è più umano

Il liberismo disumano
Il post dell'Amico Mario Santo mi sollecita una ulteriore riflessione, che muove dalle sue riflessioni e si congiunge a quelle riportate nel post "Gli intrecci tra politica e economia". Mario riprende il tema del nuovo modello di sviluppo e lo declina in termini di nuovo paradigma di democrazia, necessitato se non urgenziato dagli effetti drammatici che il modello liberista e individualista ha prodotto nel mondo, in particolare nel mondo del lavoro. Concordo pienamente sulla inadeguatezza del liberismo e dell'indvidualismo a generare virtuosi percorsi di sviluppo. Se libertà economica significa consentire a pochi ricchi finanzieri di condizionare, dai loro lussuosi uffici di New York con vista panoramica da ampie vetrate a piani alti a tre cifre, la vita di milioni di persone (lavoratori) ed altrettante famiglie, allora quella non è una libertà meritevole di tutela e anzi va opportunamente arginata, posta sotto tutela politica, ricondotta a più umani aspetti. Il liberismo (ma attenzione, anche certune accezioni di liberalismo a cui i nostrani progressisti non sono alieni ma anzi seguaci) ha al centro l'individuo come entità trascendente e superiore ad ogni altra creatura compresi i propri simili, non la persona umana guardata nella sua globalità e interezza e posta in relazione ad altre persone in un contesto di famiglia umana.

Sistema economico decentrato
Il modello economico nord americano è strutturalmente diverso da quello italiano ed europeo. In America un'azienda di 200 dipendenti è una bottega artigianale, meno di un reparto produttivo di una middle farm, molto meno di una strategic business unit. In Europa un'azienda di 200 dipendenti è una realtà industriale di piccole dimensioni, non rilevante nel contesto globale ma significativa nel quadro della governance locale. In Italia un'azienda di 200 dipendenti è una medio - grande impresa, che spesso sfama le famiglie di interi circondari, che compete con medio - grandi imprese globalizzate, che annovera tra i suoi clienti forti multinazionali. Nella differenza che assume la stessa entità economica nei diversi contesti geografici risiede tutta la diversità esistente tra il sistema italiano e quello statunitense, comprese anche le diversità tra i due modelli di sviluppo e di democrazia economica applicabile. In un tessuto industriale fatto di tante piccole imprese il potere decisionale è distribuito, non è concenrtato. Ci sono infatti tanti centri decisionali, ovvero il potere economico - decisionale è articolato e distirbuito nel territorio; non ci sono pochi manager che decidono per tanti lavoratori, ma tanti manager che ogni giorno prendono decisioni che riguardano complessivamente molti lavoratori, ma ognuno di essi ha dinnanzi a sè una platea di destinatari delle proprie politiche e strategie parziale e ridotta rispetto alla totalità dei lavoratori del sistema. In un sistema così articolato il rischio di abuso di potere economico e di distorsioni nell'utilizzo dello stesso è frazionato, in altri termini l'effetto o l'impatto di una decisione sbagliata se non addirittura contraria e lesiva dell'interesse generale è ridotto poichè circoscritto al perimetro entro il quale opera il manager che l'ha assunta. In Italia le piccole imprese assorbono più lavoratori delle grandi imprese, fino al punto da potere affermare che la crisi di una o più grandi imprese non coincide con la crisi del sistema economico. Le difficoltà di Fiat, i crack di Cirio e Parlamat non si sono tradotti in collassi di sistema. Il sistema economico italiano ha una pluralità di cuori pulsanti che gli consente di mantenersi vivo anche quando qualche grande arteria resta ostruita. Questo non accade negli Stati Uniti.

La coscenza sociale delle imprese
Concludo citando solamente un ultimo aspetto, non esaustivo della tematica ovviamente. La piccola dimensione spesso comporta un radicamento dell'impresa nel territorio, tangibile in termini di relazioni socio - economiche che l'imprenditore (spesso ex dipendente) e suoi collaboratori hanno con le istituzioni locali e la società nel suo complesso. I mercati del lavoro locali, ad esempio, sono spesso più ricchi e più virtuosi nella creazione di opportunità occupazionali e di percorsi di crescita professionale di quanto lo siano i mercati più professionalizzati o standardizzati (penso ad esempio al circuito della borsa del lavoro, che ancora non trova spazio nelle politiche di reclutamento delle aziende grandi e piccole). Le Agenzie per il Lavoro ad esempio operano attraverso una fitta rete di filiali locali e stabiliscono rapporti diretti a livello territoriale, anzichè pilotare i rapporti dal livello centrale.
Nei territori si originano reciproche attenzioni tra imprese e società locale che, se non distorte da comportamenti opportunistici e fraudolenti, danno luogo a percorsi di sviluppo. Il piccolo imprenditore in questi contesti affianca alla mentalità economica una coscenza sociale. Attenzione: non una responsabilità sociale intesa in modo formale e strutturato come le nuove politiche di CSR ad esempio stanno promuovendo, ma una sensibilità implicita nel proprio modo di ragionare, non sempre tangibile, anche perchè non messa in vetrina, comunque presente e concorrente, seppur come complemento e in modo spesso più incidentale che preordinato, nel processo decisionale dell'imprenditore soprattutto quando le decisioni hanno ricadute sociali.

giovedì 18 febbraio 2010

Per il mondo del lavoro è inizata una lunga, solitaria e dolorosa traversata del deserto, ineludibile per approdare a una nuova democrazia. La crisi finanziaria ha dato il colpo finale all'idea di democrazia sorta dalla riflessione economica di Keynes e dalle esperienze della crisi del 1929 e l'ha sostituita con una idea di democrazia che esclude il lavoro. Non è un controsenso: Pericle, già nel V secolo, diceva che democrazia " è parola che usiamo per definire il nostro sistema politico per il fatto che nell'amministrazione esso si qualifica non rispetto ai pochi ma rispetto alla maggioranza. Però, aggiungeva, nella nostra vita pubblica vige la libertà". Tra democrazia e libertà poneva conflitto. R.Reagan in un suo celebre discorso, rivolto ai Democratici di America, disse "...loro vogliono barattare la mia libertà con la loro mensa". Rivendicava una sua libertà contro le conquiste democratiche dei lavoratori. Leggo una intervista a Michael Spencer, economista liberista, il quale afferma che la caduta del consenso per Obama è dovuta alla " furiosa opposizione delle rispettive lobby alle riforme sia della sanità che della finanza, che i Repubblicani stanno cavalcando spregiudicatamente senza occuparsi dei 50 milioni di cittadini senza assistenza nè dei pericoli di un sistema finanziario tutto squilibrato e vulnerabile". Anche i banchieri rivendicano una loro libertà contro la salute dei cittadini. Il passaggio dalla società solidale del dopoguerra alla società delle libertà senza regole attuale è stato preparato da un lungo lavoro di elaborazione culturale che ha imposto affermazioni apparentemente condivisibili, ma cha hanno finito per distruggere la libertà del lavoro. Oggi non c'è nessuna Istituzione, nè civile nè morale, che senta essenziale per se la libertà dei lavoratori. La cultura dominante è cambiata al punto tale che si può arrivare a ritenere scontato che la libertà dei finanziaeri delle Banche di investimento non è barattabile con la vita degli uomini del lavoro. La traversata del deserto della mente sarà lunga il tempo necessario all'affermazione di una nuova cultura che riporti il lavoro a fondamento irrinunciabile della libertà. Per il PD c'è un enorme lavoro da fare.
Mario Santo

mercoledì 17 febbraio 2010

Gli intrecci tra politica e economia

La visione positiva dei rapporti tra economia e politica
I rapporti tra politica ed economia sono spesso al centro di indagini, opinioni, inchieste, fatti di cronaca, sovente di natura giudiziaria. La vicenda che vede al centro i rapporti tra la Protezione Civile e il mondo dell’industria è solo il più recente degli esempi della criticità che assumono spesso gli intrecci tra politica e economia. Una parte dell’opinione pubblica si è abituata a guardare con sospetto e diffidenza il rapporto organico e sistemico tra politica e politici e economia e imprenditori e manager, come se da quel coacervo di intrecci e di rapporti reticolari non possa che derivare degrado morale ed etico, oltre che danno per la collettività e compromissione dell’interesse generale. Certamente si tratta di una visione di parte e forse forzosa, rappresentativa di un certo modo di vedere questi rapporti da parte di una certa fetta della società italiana. Io sono di un’altra idea. Io sono dell’idea che, integrandosi in una rete di rapporti e di interdipendenze reciproche ispirate a principi etici di tutela dell’interesse generale, di rispetto dell’autonomia delle parti e di reciproco riconoscimento dei diversi ruoli sociali ed istituzionali, politica ed economia possono realizzare sinergie ad alto valore aggiunto sociale.

Ruoli interdipendenti tra politica e economia
Politica ed economia sono tra loro interdipendenti e complementari. Luigi Sturzo sosteneva che l’economia senza etica è diseconomia. Lo diceva negli anni cinquanta e sessanta, anni di boom economico. Lo stesso concetto è ripreso e riproposto da Benedetto XVI nella Sua ultima enciclica, laddove il Pontefice rivolge un appello a tutti gli operatori economici, imprenditori e sindacati, affinchè rimettano al centro delle proprie azioni la persona. L’economia per essere fedele a se stessa e per non tradire la propria natura di scienza umana, votata al servizio dell’uomo, necessita di una dirittura morale, valoriale, etica che non può venire da un approccio tecnicistico. Per assicurare un’etica e un’anima sociale al sistema economico deve intervenire la politica, alla quale è demandato il compito impegnativo di orientare i comportamenti sociali secondo principi etici. D’altro canto la politica è essa stessa strumento al servizio dell’uomo, affinchè questo possa agire e inter-agire in un contesto sociale che lo riconosca e che ne valorizzi il contributo, tutelandone anzitutto la dignità. Per perseguire questi fini la politica ha bisogno dell’economia, nella misura in cui il sistema economico, fatto di imprese e di lavoratori in senso lato, costituisce e fornisce un formidabile veicolo di integrazione sociale, ovvero al tempo stesso l’ambito di produzione dei beni e dei servizi che consentono di soddisfare i bisogni e l’ambito di sviluppo delle relazioni che consentono alle persone di riconoscersi e di interagire.

L’autonomia delle parti
Gli intrecci tra politica ed economia sono molto critici, ma non necessariamente perversi e deleteri. Dall’incontro tra politica ed economia possono derivare vantaggi e benefici di ampia portata sociale. Si pensi ad esempio all’effetto che possono avere sull’occupazione politiche di supporto alle imprese, soprattutto a quelle imprese che hanno maggiore penetrazione nelle dinamiche sociali locali e che sono radicate nei territori. Certamente le sinergie tra politica ed economia sono possibili se ognuna delle parti mantiene la propria autonomia e non deroga alla propria missione. Viceversa, se il politico si improvvisa operatore economico e comincia ad utilizzare la politica come un prodotto o un servizio da vendere al migliore offerente, promettendo ad esempio il soddisfacimento di interessi di parte a scapito di quelli di portata generale, diventa un corrotto. Allo stesso modo se l’imprenditore cede alla tentazione di appropriarsi della politica per farne un fattore produttivo da impiegare al servizio dei propri interessi diventa un corruttore. È bene che politica ed economica operino di comune accordo, concertando strategie e linee di azione votate all’interesse generale, rispettando però i propri ruoli e non cedendo mai alla tentazione di prendere pericolose scorciatoie, che portano alla creazione di corruttele.

La vicenda Protezione Civile e grandi appalti
Della vicenda Bertolaso oggi si può commentare poco, perchè le indagini sono appena partite e siamo solo davanti a titoli di giornali. Però si può dire che la vicenda rappresenta un formidabile esempio di come i rapporti tra politica ed economia siano delicati e, secondo come vengono interpretati dai protagonisti, possono assumere un alto profilo etico o un basso degrado morale. Il clamore di questa vicenda, unica per quanto rilevante, rischia di gettare fango sul pur necessario connubio che politica ed economia devono continuare ad avere, soprattutto a livello locale, per le ragioni sopra appena menzionate. Altre vicende in passato, non molto lontano, hanno rischiato di compromettere l'immagine dei rapporti tra politica ed economia, come ad esempio la vicenda dei rapporti tra politiche sanitarie (soprattutto in Lombardia) ed operatori privati. Il rischio che si corre è che la politica diventi un servizio nelle mani dei politici da utilizzare per regolare in modo artificioso e perverso le dinamiche concorrenziali, a scapito degli imprenditori onesti, degli utenti e dei lavoratori, per trarne vantaggio economico di natura particolare e non generale. Si perseguano i reati e si condannino i colpevoli, ma politici e imprenditori e manager non rinuncino a concertare politiche serie, ad interagire, a creare una rete di relazioni alla luce del sole e per il bene comune; soprattutto a livello locale, laddove le economie di prossimità e le politiche territoriali intrecciandosi diventano volano di sviluppo e fonte di benessere diffuso.

sabato 13 febbraio 2010

Cinema, Lega e Fascismo

Traggo dal mercato la notizia che, a pochi mesi dal lancio in sala, esce in dvd Barbarossa. Nonostante il titolo, il film di Renzo Martinelli appunta la sua attenzione su Alberto da Giussano, il milanese che secondo la leggenda guidò i lombardi alla rivolta proprio contro Federico I di Svevia, alla metà del XII secolo. E culmina nella rappresentazione della battaglia di Legnano del maggio 1176, quando i Comuni sconfissero l’odiato Teutone e riaffermarono la propria libertà.

Il film è costato 30 milioni di euro e in sala ne ha incassato appena uno. Non si sa se le spese di produzione verranno riassorbite attraverso la vendita dei diritti per l’home video e la trasmissione televisiva in chiaro. Un esito tanto più eclatante se si pensa al lancio spinto che della pellicola fecero lo scorso anno Bossi e l’intero stato maggiore leghista. Del leader le cronache riportarono pure le lacrime d’emozione, tanto rimase colpito dalla potenza della rievocazione storica. Ma i verdi caporioni padani sono stati gli unici a lasciarsi ammaliare da un film discusso, appunto, più per i retroscena politici che per i meriti artistici. Bossi e i suoi ci volevano proprio credere. Il popolo delle valli non si è fatto irretire dalla retorica celtica. Il resto d’Italia ha guardato da un’altra parte. È la dimostrazione che la “gente” non si lascia irreggimentare tanto facilmente. Neanche la “nostra gente”.

Nel 1934, Mussolini diede al pubblico Camicia nera, di Giovacchino Forzano. Narrava, con toni epici e propagandistici, la storia degli anni corsi tra la Prima guerra mondiale e la presa del potere fascista, attribuendo al Duce il merito di aver rimesso in sesto l’Italia. L’Istituto Luce spese per la realizzazione del film l’iperbolica cifra di 3.813.000 lire, ma la resa al botteghino fu disastrosa. Quell’anno, paradossalmente, il film di maggiore successo nel nostro paese fu La febbre dell’oro di Charlie Chaplin, aborrita produzione americana per la quale vennero staccati quattro milioni e mezzo di biglietti. Il pubblico scelse, anche allora, anche in condizioni tanto difficili. Bossi e i suoi ripassino la storia. Almeno quella della settima arte.

giovedì 11 febbraio 2010

Capitale umano e piccole imprese: il rilancio parte dal territorio

Introduzione al tema: lo sviluppo economico
Prima che le campagne elettorali incombenti catturino la scena voglio intervenire su un argomento a me caro, già affrontato in un precedente post di qualche settimana fà. Mi riferisco al tema dello sviluppo economico, declinato nella sua accezione di questione socio - politica e non certo di tematica politica - economica, non essendo il sottoscritto un economista. La precisazione non è di second'ordine.

Lo sviluppo e la variabile tecnologica
Matteo Colaninno in un'intervista pubblicata dal Sole 24 Ore il 12 gennaio sostiene che "una media-grande impresa che produce beni di consumo finali attraverso la logica delle forniture globali resta sul mercato. Una piccola che produce beni intermedi rischia di rimanere schiacciata, dovendo competere su prezzi e qualità con l'offerta globale". Mi permetto di dissentire. La produzione di beni intermedi (componentistica, utensileria, imballaggi, ecc...)non è strategicamente condannata a soccombere nella morsa del binomio prezzi - qualità. Certamente queste due variabili competitive giocano un ruolo determinante nella comparazione tra economie di Paesi diversi in una scala globale. Tuttavia non hanno un ruolo esclusivo. Colaninno non considera nella sua analisi due variabili competitive di rango strategico: la professionalità e la tecnologia. In particolare la tecnologia costituisce un fattore critico di successo che consente di perseguire obiettivi di efficienza e qualità. Le PMI italiane pullulano di tecnologia e, in non pochi settori anche se non in tutti, anche di eccellenze professionali.

Lo sviluppo e la variabile professionale
La riflessione sulla professionalità è forse più complessa e, per certi aspetti, più interessante. Il modello di sviluppo italiano è basato, fin dal Medioevo, sulla professionalità, sul saper fare, su una indomita indole a mettere a frutto e realizzare idee, slanci, intuizioni. Lo dice Fabi sempre sul Sole (31 gennaio) citando uno studio dell'Istao, che descrive l'origine della struttura produttiva del nostro Paese come "una realtà dove prevaleva una struttura sociale appoggiata a un'organizzazione produttiva in larga misura familiare e a una concezione del lavoro in prevalenza autonoma e indipendente di derivazione artigiana. In questo modo, ambiente e potenzialità imprenditoriali si fondono anche grazie al collante derivante dalle culture e dalle tradizioni. E realizzano così importanti meccanismi spontanei di diffusione locale dello sviluppo.". Vedere i percorsi di sviluppo come processi di diffusione locale dei saperi, e dei saper-fare, può aiutare a (re)interpretare la prospettiva economico-sociale del nostro Paese. Lo studio del sapere locale, inteso come professionalità che nasce e si diffonde nei territori dentro e attraverso le piccole e medie imprese, è relativamente recente, benchè la dinamica sia di antichissima origine storica (nasce nelle botteghe artigiane nell'Italia dei Comuni).

Professionalità e Territori: il rilancio dello sviluppo
Siamo al dunque: io credo che Colaninno sbagli nel prefigurare un sistema economico mondiale fatto solo di grande scala, solo di grande dimensione, solo di grandi capitali, solo di grande finanza. Addirittura, e questo mi sembra al limite del demagogico, auspica un ritorno all'industria di Stato (e beneinteso, non in settori strategici per la sicurezza nazionale). Lo dice bene l'esponente Pd: "le economie che resisteranno meglio sono quelle che avranno maggiore armonia tra le diverse dimensioni delle imprese e un forte sistema finanziario [...] penso anche a un ritorno dell' industria pubblica: Eni, Enel e Finmeccanica potrebbero investire di più al Sud e supportare nuove filiere". Detto che non sono d'accordo con Colaninno resta sul tappeto la domanda di fondo: qual è la via per rilanciare lo sviluppo? Credo che lo dicano bene le parole di Carlo Carboni, prese a prestito dal suo ultimo libro La governance dello sviluppo locale: "il capitale umano unito al capitale sociale (e quindi alle relazioni di comunità) può costituire il vero vantaggio competitivo per un rilancio sostenibile dell'economia italiana". Capitale umano e capitale sociale: unione dei saperi, delle professionalità, delle competenze definiti e trasmessi nelle e tra le comunità locali, dentro e fuori le imprese che in queste comunità operano guardando al mondo. Non un nuovo nanismo o una involuzione, ma un salto di qualità capace di superare in termini di potenzialtà di sviluppo il salto di dimensione e di scala teorizzato da Colaninno.

lunedì 8 febbraio 2010

La sobrietà del Celeste (di Mattia Cattaneo)

Sabato 6 febbraio, Cassano Magnago. Inaugurazione del cantiere della Pedemontana: una tensostruttura costruita per l’occasione, una strada realizzata solo per questa giornata, musica, balli e naturalmente lui, il “celeste”, Roberto Formigoni. Costo della scenografia: 300.000 euro.
Domenica 7 febbraio, messaggio dei vescovi italiani in occasione della “giornata per la vita”: “Il benessere economico non è un fine, ma un mezzo, il cui valore è determinato dall’uso che se ne fa: è a servizio della vita, ma non è la vita. Quando, anzi, pretende di sostituirsi alla vita e di diventarne la motivazione, si snatura e si perverte. Anche per questo Gesù ha proclamato beati i poveri e ci ha messo in guardia dal pericolo delle ricchezze. Alla sua sequela e testimoniando la libertà del Vangelo, tutti siamo chiamati a uno stile di vita sobrio, che non confonde la ricchezza economica con la ricchezza di vita”.
Cosa c’entra l’inaugurazione (una delle tante) organizzata da Formigoni con il messaggio dei vescovi che invitano, come ha spesso fatto ultimamente il cardinale Tettamanzi, alla sobrietà ?
Nulla, non c’entra nulla.
Appunto. Le azioni politiche di Formigoni, cattolico, cattolicissimo, anzi “celeste”, non c’entrano nulla con il messaggio dei vescovi.
E’ così da 15 anni.

venerdì 5 febbraio 2010

Destra Sinistra & Cattolici (di Mario Santo)

Leggo una intervista a Carlo Galli autore del libro : “ Perché ancora Destra e Sinistra”, edito da Laterza. L’intervistatore chiede se ha ancora senso la coppia destra sinistra. L’intervistato conferma l’esistenza di una differenza: la destra, dice, considera la realtà come un disordine che impone di adattarsi in ogni modo ai rischi e ai pericoli sempre insorgenti. La sinistra, invece, vorrebbe centrare la politica su un set di valori inderogabili, cha hanno come riferimento l’umanesimo moderno. Il riferimento a valori inderogabili, mi richiama altre letture. Frédéric Lenoir , nel libro “ Le Christ Philosophe dice: “ la Bibbia promuove la dignità dell’uomo creato ad immagine di Dio, ma lega l’individuo inscindibilmente al gruppo di appartenenza, il popolo eletto”. La stessa cosa fanno i greci classici che privilegiano la città rispetto all’individuo. Ed è attraverso i greci, spiega Lenoir, che emergerà la concezione filosofica della “persona”, decisiva per la comprensione dell’idea cristiana dell’essere umano e della sua dignità. La dignità del singolo è legata alla solidarietà del gruppo. A che punto siamo? Siamo nel pieno della grande crisi finanziaria ed economica che ha già prodotto milioni di disoccupati. A me pare che la crisi sia sopraggiunta al termine di un cambiamento culturale che ha indebolito l’idea di persona e il suo vincolo di solidarietà di gruppo.
E i cattolici dove sono? Mi sembra che siano, nella grande maggioranza, a destra. Guardano ad un mondo “ che non è a misura di uomo, ma di altre entità che lo sovrastano e gli dettano legge e a cui si deve adattare: il mercato, la competizione geopolitica, l’identità culturale…” ( C.Galli). Il cardinale Martini, interrogato su quale fosse, oggi, il peccato del mondo ha risposto : l’ingiustizia. Ovvero la mancanza di solidarietà.

L'impedimento e l'aspettativa

Impedimento e aspettativa
Chi è avvezzo ad occuparsi di rapporti di lavoro sa cos'è un'aspettativa: un periodo di tempo durante il quale il lavoratore sta assente per una ragione specifica (solitamente gravi motivazioni familiari, impedimento a svolgere la prestazione per ragioni di salute o conseguentemente ad una gravidanza), durante il quale non percepisce retribuzione e non matura anzianità. L'aspettativa ha sul rapporto di lavoro un effetto sospensivo e non estintivo. Presupposto dell'assenza è un impedimento (normato dai contratti) a svolgere per un prolungato periodo di tempo, comunque determinato, la prestazione lavorativa.

Differimento dei processi, no estinzione
La norma approvata dalla Camera dei Deputati del c.d. del "legittimo impedimento" evoca nella mia mente il concetto dell'aspettativa. laddove per periodo di assenza deve intendersi l'oggettiva impossibilità per il presidente del consiglio e per i ministri a persenziare alle udienze in costanza di incarico ministeriale. Come l'aspettativa non estingue il rapporto di lavoro, così il legittimo impedimento non estingue i procedimenti giudiziari. Come l'aspettativa sospende la decorrenza dell'aznianità di servizio, così il legittimo impedimento sospende (facendone salvi i benefici effetti di ordine giudiziario) la decorrenza dei termini di prescrizione. Diciamo per semplicità che la norma del legittimo impedimento costituisce, sotto il profilo tecnico, un differimento dello svolgimento dei processi senza lesione dell'ordinamento giuridico e delle funzioni giudiziarie.

La valutazione politica
Altra cosa è il significato politico. Sotto il profilo politico ritengo che il giudizio su questa norma vada inquadrato in un contesto più complesso che si compone da un lato della scure del c.d. processo breve, vera mannaia e tragedia politica da evitare con ogni forza ed espediente, dall'altro dell'iter di modifica della Costituzione relativamente all'approvazione del c.d. lodo Alfano bis. Sul punto credo che una riflessione seria sull'opportunità di rimuovere situazioni di incompatibilità tra processi giudiziari e funzioni di governo vada fatta, agendo ad esempio sui tempi dei processi che vedono come attori esponenti del governo. Non mi sembra deprecabile il principio secondo cui il presidente del consiglio possa definire l'agenda di governo prescindendo dal calendario delle udienze che lo riguardano. Certo che il principio dovrebbe valere, e in effetti nel testo di legge è così previsto, sia per i procedimenti (penali) che vedono il presidente del consiglio, o un ministro, comparire come imputato, sia come attore (parte lesa). Mi spiego meglio: se il presidente è oggettivamente impedito a presenziare in udienza, lo è anche quando dovrebbe avviare procedimenti giudiziari che lo vedono come accusatore e non solo per difendersi. Non è un dettaglio da trascurare. A conclusione di questo ragionamento mi chiedo: è opportuno che un cittadino con numerosi procedimenti giudiziari in corso faccia il presidente del consiglio? Forse sarebbe meglio evitare... no?

mercoledì 3 febbraio 2010

Perchè Silvio sia sereno

La Camera dei Deputati ha approvato oggi il cd “legittimo impedimento”, un provvedimento in virtù del quale Silvio Berlusconi starà lontano dai tribunali per 18 mesi. Il tempo di approvare il cd Lodo Alfano/2 – la vendetta (contro la Corte Costituzionale).

E’ una vicenda che non mi sorprende. Poteva un parlamento di cooptati ribellarsi al volere del cooptante? Realisticamente non poteva. Eticamente si. Ma questa è un’altra storia.

Di questa vicenda, però, mi addolora il comportamento degli amici dell’UDC. Con i quali ho sempre creduto di condividere molti fondamenti etici. Oggi facciamo scelte diverse. Non sull’opportunità del ponte di Messina o degli incentivi all’automotive. Ma su un valore tanto laico quanto sacro: l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Le motivazioni di Casini, Vietti e soci non mi hanno convinto. Per nulla.

Di questa vicenda, infine, mi lascia basito il richiamo al “sereno svolgimento” delle sue attività di Silvio e dei suoi Ministri. Già, perché il testo approvato afferma che solo se impediti per legge a comparire davanti ad un giudice potranno governare sereni. Non considero un aspetto marginale questo uso mistificante di una parola tanto impegnativa. Ha ricordato in aula Rosy Bindi che Tommaso Moro e Bonhoeffer andarono verso il martirio sereni. Che Sandro Pertini colse la serenità nel volto di Bachelet ucciso dalle Brigate Rosse. Che, come afferma il salmista, un bambino è sereno come quando è nel grembo della propria madre o è affidato a lei. Nulla a che vedere con le vicende processuali di Silvio Berlusconi.

Fuori dal PD, fuori dal centrosinistra

Ho lasciato il Partito Democratico da più di un anno, a termine di una riflessione personale durata qualche mese e quindi in modo convinto e motivato, per tre ragioni toccate con mano e per esperienza diretta: il Pd è un partito strutturalmente composto da militanti e dirigenti quasi esclusivamente provenienti dal mondo della sinistra (progressista, post – sessantottina, post – comunista, ecc.) e per tale ragione oggettivamente impedito nell’allargamento della propria base culturale di riferimento se non attraverso processi di annessione politica; il Pd è un partito votato quasi esclusivamente dall’elettorato di sinistra e per tale ragione principale se non unico interprete e referente della domanda di “politica di sinistra” che comunque esiste in questo Paese, seppur con una distribuzione geografica disomogenea e con numeri complessivi inferiori a quelli della maggioranza dell’elettorato; il Pd da quando è nato non ha mai dato segnali di volere mutare il proprio legittimo codice genetico di partito fatto da persone di sinistra che vuole e vogliono stare a sinistra, seppur in un contesto di centrosinistra (ma con una peso marginale e residuale della parte centrale), scegliendo alleati lontani anni luce dalla tradizione politica cattolica e popolare come i Radicali e l’IdV. Avevo scommesso sulla capacità del Pd e di tutti coloro provenienti dalla sinistra di sapere cambiare pelle e dare vita ad un partito centrale nella storia politica e nella società italiana, ho preso atto che così non è. Il Pd è il partito della sinistra italiana del terzo millennio, per altro in modo legittimo e con tutto il diritto di esserlo. Semplicemente non è il mio partito, io non sono di sinsitra. Semplicemente sono giunto alla conclusione che l’idea di riunire il centrosinistra senza trattino tutto in un partito sia fallita. Per tale ragione credo che uscire dal Pd significhi anche uscire dal centrosinistra.

lunedì 1 febbraio 2010

Democratici dietro l'obbiettivo

Qualche giorno fa mi è arrivato un messaggio di posta elettronica dalla segreteria provinciale del Partito Democratico. Il messaggio giungeva da Varese, rivolto a me e a «tutti gli iscritti». Lo cito interamente, perché breve ed esemplare.

Carissimi,
i referenti della comunicazione on-line del PD Varese a breve renderanno attivo il nuovo sito del Partito Democratico provinciale. Uno spazio importante sarà riservato alle immagini relative al territorio (fotografie dei laghi, delle montagne, dei paesi, delle tradizioni, del mondo economico e produttivo, della scuola, della gente). A tale proposito, invitano chiunque lo desideri a dare il proprio contributo inviando delle foto da pubblicare. Le immagini vanno inoltrate all’indirizzo info@pdvarese.it (specificando in oggetto IMMAGINI PER SITO). Estendiamo la richiesta a tutti gli iscritti, ringraziando per la collaborazione.


In due anni di militanza, sono stato contattato dal PD assai raramente. A cura dei candidati alle primarie interne o in occasione di qualche manifestazione di piazza. In quest’ultima evenienza, con appelli asettici alla partecipazione, veicolati dalla fredda pagina web. Mai che il mio partito mi abbia domandato cosa pensavo, cosa desideravo, cosa potessi o volessi offrire, in termini di idee, al progetto comune. Ecco che ora la lacuna viene finalmente colmata. Il PD mi chiede fotografie, altrettante cartoline da incorniciare nel nuovo sito. Un contributo essenziale che però Varese non avrà. La mia tessera del Partito Democratico è scaduta il 31 dicembre. E non ho alcuna intenzione di rinnovarla.

Dialogo con Paola Binetti - (di Giuseppe Adamoli)

"Ho letto che in alcune interviste nei giorni scorsi Paola Binetti (la cui intelligenza stimo molto anche quando dissento) parla di una «difficilissima coesistenza nel Pd dei cattolici e della sinistra». Che lei senta disagio è noto e mi dispiace, ma non è di questo che desidero parlare oggi. Vorrei far notare alla Binetti, a cui invierò questo breve post e che qualche volta mi legge, che è sbagliato mettere sullo stesso piano cose, concetti, dimensioni culturali e sociali così diverse. La “sinistra” è una categoria politica già difficile da definire in se stessa, anche quando si fa riferimento solo al Pd. I “cattolici” non sono per nulla assimilabili ad una categoria politica. Il pluralismo è un carattere forte e ineliminabile della loro presenza politica. I valori sono gli stessi, però sono tradotti in pratica in modo differente secondo la formazione culturale, le esperienze di famiglia, le condizioni di ambiente, di vita e di scuola. Storicamente abbiamo avuto i cattolici intransigenti e quelli non intransigenti, i cattolici democratici e popolari, i cattolici liberisti (non libertari certamente) e così via. Si possono delineare i contorni di questi gruppi sociali poiché storicamente si sono realizzati. Non si può però chiedere a qualcuno di optare fra l’essere cattolico o di sinistra e a qualcun altro di optare fra l’essere cattolico o di destra.
Cara Paola, perché fare certe generalizzazioni? È meglio parlare concretamente, come fai anche tu, di concezione della famiglia, di tutela della vita, di educazione scolastica, di lotta alla povertà, di accoglienza e di integrazione degli immigrati e qui esprimere le idee e misurarsi laicamente con quelle degli altri.
" (da www.varesepolitica.it/adamoli)

Forse non è d'uso che un blog ospiti interventi presi da altri blog.
Ma in questo caso mi è sembrato utile. E ringrazio l'autore per avermelo concesso.
La sua è una interessante riflessione, che idealmente rilancio a quei cattolici che hanno una sensibilità che li porta vicino a quella di Paola Binetti. Ma anche a quei non credenti o diversamente credenti interessati a confrontarsi su questo tema sempre attuale e pregnante.
A condivisione di quanto affermato da Giuseppe, aggiungo solo, per ora, che già Sturzo rifiutava l'accostamento tra "cristiano" o "cattolico" e il nome di un partito.