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giovedì 29 aprile 2010

Il dialogo sociale è un metodo da tutelare e promuovere. Ma Telos è un'altra questione.

Il “25 Aprile degli imbecilli” (come lo ha appellato Augusto Airoldi nel suo blog personale), ovvero la “sovversiva, fumogena e protestataria” (come l’ha definita il sottoscritto su Zone di Confine) azione di Telos alla celebrazione della Liberazione ha riportato alla cronaca vari temi e fatto riemergere diverse pulsioni, tra loro anche molto contrastanti, rispetto all’approccio che la politica dovrebbe seguire nell’affrontare la questione “centri sociali”.
Sempre da questo blog ho lanciato il mio personale pensiero riguardo l’opportunità, per l’Amministrazione Comunale, di non ricorrere al dialogo sociale per gestire il problema Telos e più in generale la problematica legata ai “centri sociali”, assunta nella sua accezione negativa.
Successivamente il Sindaco Luciano Porro ha annunciato l’intenzione di incontrare i ragazzi di Telos per “capire cosa vogliono fare anche nel rispetto delle regole”. Per altro questa volontà di Porro ben rappresenta il suo usuale approccio ad ogni questione, sempre basato sulla conoscenza diretta delle questioni e delle persone cui queste fanno riferimento.
Ritengo tuttavia che il ricorso al dialogo sociale vada circostanziato e contestualizzato, al fine di non fuorviarne il significato, non depotenziarne la capacità di produrre effetti positivi e non derubricarlo a sterile pratica democratica priva di efficacia. Una riflessione pacata sulle dinamiche sottostanti le pulsioni sociali di Telos potrebbe aiutare a discernere le situazioni e le circostanze nelle quali il dialogo sociale, se correttamente attivato, può costituire la strada maestra per la soluzione delle questioni e la ricomposizione delle posizioni, dalle situazioni in cui venendo meno i presupposti di dialogo il ricorso allo stesso produrrebbe una cronicizzazione delle questioni.

È comprensibile che l’Amministrazione di centrosinistra adotti il metodo del dialogo nella gestione della “questione giovanile”, lanciando ad esempio tavoli di concertazione delle politiche giovanili, organizzando momenti di consultazione e di ascolto, promuovendo iniziative e collaborazioni partecipate, o quant’altro sia ascrivibile al capitolo partecipazione e coinvolgimento. Può non essere condivisibile come scelta politica, ma certamente ha un suo valore intrinseco.
La specifica questione di Telos però sfugge a queste circostanze. Telos non è un paragrafo del capitolo “questione giovanile”. Dissento da chi sostiene, pur condannando le azioni illegali, che dietro Telos si annida un disagio che va capito e intercettato. Ritengo Telos un paragrafo del capitolo “sovversione”. Per altro l’opposizione al dialogo è venuta, almeno fino ad oggi, proprio da Telos. L’uso del dialogo in questa specifica circostanza produrrebbe l’effetto di rendere isteriche le parti, a meno che una delle due ceda. Ma è accettabile che a Telos venga assegnata la dignità di “parte” dialogante con l’Amministrazione Comunale? Telos rappresenta un interesse collettivo, generale, diffuso oppure solo se stesso? Telos è espressione del disagio giovanile? Io credo di no. Credo che manchino i presupposti per ricorre ad un dialogo costruttivo.

Il dialogo sociale è la risultante di un continuo processo di maturazione delle parti coinvolte, che si alimenta di reciproca legittimazione e di convergenza di interessi, nel rispetto delle divergenze di opinione e di ruolo. L’apertura di un tavolo di dialogo comporta la condivisione non solo del metodo, ma la disponibilità a concorrere ad una discussione che assuma come legittime e lecite le motivazioni dell’altra parte. Il mancato riconoscimento della legittimità delle ragioni dell’altra parte non porta al dialogo, ma a qualcosa di diverso che, tanto per dare un’immagine, il linguaggio giuridico chiama “dibattimento”. La legittimità delle motivazioni e delle questioni non è pertanto un fattore imprescindibile nella valutazione dell’opportunità ad attivare un canale di dialogo, bensì costituisce uno degli elementi fondanti del dialogo sociale. Diversamente chiunque, in modo scriteriato ed arbitrario, avrebbe la possibilità di accedere impunemente al tavolo di dialogo. Ma questo comporterebbe uno svilimento del dialogo stesso, che verrebbe percepito non più come la modalità assunta dalle parti sociali per regolare e alimentare i loro rapporti in regime di reciprocità, ma come uno sfogatoio nel quale affogare e far convergere tutte e qualsiasi questioni di dissenso, di rifiuto, di avversione, di sovversione.

Pietro Insinnamo
"OBBEDIENTI IN PIEDI"

"Obbedienti in piedi": questa citazione di Vittorio Bachelet ci indica il giusto modo in cui il credente deve porsi nei confronti della Chiesa, soprattutto se impegnato in politica.
In questi ultimi anni, si direbbe quasi che nella politica è di moda essere cattolici: è di moda sbandierare i valori del cristianesimo; è di moda rincorrere la posizioni dei vescovi o addirittura del Papa, facendole proprie; è di moda corteggiare la Chiesa mettendola dalla propria parte.
E' un'obbedienza strisciante, quella di molti politici cattolici, un'obbedienza che non parte da una convinzione ma da un interesse.
E spesso alla Chiesa fa comodo: purtroppo anche lei molte volte ha rinunciato ad alzare la sua voce per quel piatto di lenticchie rappresentato da quattro soldi per le scuole private.
Ma la vera obbedienza che dovrebbe pretendere la Chiesa e che i credenti dovrebbero assicurare è quell' obbedienza in piedi di cui parlava Bachelet. Che significa, in pratica, vivere gli insegnamenti della Chiesa ma ragionando su di essi, declinandoli nella realtà in cui si vive in modo da garantire in ogni situazione il bene migliore, anzi il bene comune.
Ma oggi i cattolici sono in grado di vivere questa obbedienza in piedi?
Io come credente, non mi sento certo rappresentata da partiti come l'UDC, che vivono la politica in modo confessionale, nè tanto meno dalla Lega, così attenta a proporre e difendere le tradizioni del Cristianesimo, nè da Berlusconi, che non perde occasioni per mostrare la sua "cattolicità".
E i cattolici del PD dove sono finiti? Sono stati divorati dai comunisti che hanno preso il sopravvento? In verità, non c'è stata nessuna invasione....semplicemente tanti di noi si sono ritirati, stanchi di una politica che partorisce solo conflitti, povera di idee e di progetti sigificativi. Qui, lasciando da parte la parola obbediente, bisognerebbe dire: "Cattolici del PD, in piedi!". Ma non per rivendicare, come spesso si fa, vecchie appartenenze, ma per dare un coraggioso contributo a questo PD, che di coraggio non ne ha.

lunedì 26 aprile 2010

C'è un integralismo laico?

Caro Airoldi, sul blog “zone di confine” lei si definisce “un cattolico che crede nella distinzione dei piani tra fede e politica”. Se capisco bene, crede nella laicità della politica, non è un integralista clericale. Mi permetta allora una domanda: siete solo voi cattolici ad essere sotto “esame di laicità” o lo sono anche i politici non credenti? Intendo: se un politico non credente che riveste un ruolo istituzionale rifiutasse di presenziare alla parte religiosa di una manifestazione pubblica che lo vede invitato, lei come lo definirebbe: laico o laico-integralista?.
Un cordiale saluto.
Ettore Frangipane

(via e_mail)

Egregio Frangipane, innanzitutto grazie per l’attenzione che riserva a questo blog che, come avrà visto, è gestito comunitariamente. Intendo quindi la sua domanda rivolta non personalmente a me, ma a tutti gli autori. Tra l’altro, non tutti credenti.

Provo, per quanto mi riguarda e nel poco spazio concesso ad un post, a rispondere ai molti, interessanti temi sottesi alla sua domanda.
Si, come Lazzati ha insegnato e il magistero della Chiesa ha acquisito, credo che fede e politica siano su piani distinti. Ancorché non disgiunti. Da qui deriva la libertà per un credente di scegliere l’opzione politica che più ritiene capace di operare per il bene comune nella situazione data. La politica non è il luogo del bene assoluto, ma del miglior bene possibile in un contesto dato. Vorrei quindi tranquillizzarla: non mi sento affatto sotto esame.

Intendo l’integralismo una forma mentis. A mio avviso, deteriore. Che sia praticato da politici di destra o di sinistra, da cristiani, non credenti o diversamente credenti, poco cambia. E’ sempre fautore di probabili disastri.

E vengo al cuore della sua domanda. Chi ricopre un qualsiasi ruolo istituzionale, accetta di rappresentare i cittadini, tutti i cittadini che quel ruolo comporta, “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (Costituzione della Repubblica - art 3). Qualsiasi politico informi un proprio comportamento a principi diversi da questi, tradisce la lettera e lo spirito della Costituzione.

Diversamente detto. Ce lo vede lei un Sindaco che partecipa ad un appuntamento pubblico solo se non comprende momenti religiosi cristiano-cattolici? Un altro che non vi partecipa se vi sono momenti della religione ebraica? Un altro ancora che non partecipa a momenti di culto islamico? Un altro ancora che nega la sua presenza a qualsiasi culto religioso che fosse parte di un momento pubblico? E magari, nella sua città, ci sono cristiani, ebrei, musulmani e non credenti. Sarebbe una babele.

Come vede, egregio Frangipane, a mio avviso l’integralismo non ha colore politico. E neppure fede religiosa. Ma, soprattutto, sconfessa il principio di laicità.

Grazie e continui a seguire il nostro blog.

TELOSconsiglio. il Centrosinistra molli i centri sociali al loro destino, l’emarginazione.

Si sono fatti riconoscere. Ancora una volta quelli di Telos (i ragazzotti saronnesi protagonisti di varie e sgangherate occupazioni abusive di capannoni privati), come anime in pena che non trovano pace, in completa balia delle proprie ansie di sovversione, alieni da ogni senso di responsabilità e da ogni auspicabile ambizione ad integrarsi nei meccanismi della civile convivenza, hanno mostrato il peggio di sé, messo in vetrina la loro “alternatività”, il loro “essere diversi”, il loro “rifiuto del sistema”, la loro fumogena e protestataria presenza. Sessantottini del terzo millennio, figli putativi dei sessantottini del secondo millennio.
Ho apprezzato la scelta di non accodare bandiere di partito al corteo per la celebrazione della Festa della Liberazione. Festa di tutti, non di una parte politica più della altre.
Mi permetto di dare uno “sconsiglio” alla nascente Amministrazione saronnese di centrosinistra: non sia indulgente con i Telos e loro simili. Prenda posizione, anticipi gli eventi, non aspetti che la questione dei centri sociali diventi tale esplodendo con il suo carico di contrasti e dissidi che sempre porta con sé. Non usi lo strumento del dialogo sociale in questa circostanza, con gli “alternativi al sistema” non serve. Faccia anzi capire che il loro modo di essere, di pensare, di proporsi non trova diritto di cittadinanza e di tolleranza né a destra (scontato), né al centro (ovvio), né a sinistra (per niente scontato né ovvio). Se vuoi che una fiamma si spenga togliele ossigeno… perché se non lo fai allora passi dalla parte degli incendiari.

Pietro Insinnamo

venerdì 23 aprile 2010

Il boss è solo

"Altrimenti che fai, mi cacci?!". E' la frase con cui Fini si è rivolto in modo plateale a Berlusconi. Non è solo una frase, è una sfida. La sfida di un uomo fermo, convinto, determinato a non cedere, a non farsi intimorire, a non provare soggezione di Berlusconi. Questà è la vera novità politica di quanto sta accadendo nel PdL: la rottura dei due leader certifica che è possibile non provare alcuna soggezione di Berlusconi, non subire la sua tracotanza, il suo ascendente, la sua protervia, anche senza militare nel centrosinistra. Anzi, dal centrosinsitra mai nessuno ha avuto la forza, la credibilità a l'autenticità di affondare su Berlusconi così come ha fatto Fini.

"La musica è finita, gli amici se ne vanno". La frase non appartiene a Fini, ma è ugualmente celebre. Il nucleo titanico del Polo delle Libertà del 1994 si è dissolto, disgregato, diviso. Casini ha mollato Berlusconi già da due anni. Fini gli sta facendo masticare amaro, quasi avesse colmato una misura di attesa e pazienza che sembrava inesauribile. Bossi? Bossi ha già tradito. Proprio nel 1994. E' pacifico che il rapporto che lega Bossi e Berlusconi non ha solo contnuto e ragioni politiche. Ci sono interessi economici, assetti di potere, equilibri sociali, posti e poltrone che rendono recirpocamente interessante il rapporto tra i due. Ma Bossi non è disposto a morire per - e con - Berlusconi. L'ha già tradito una volta. Lo farà di nuovo se il vantaggio del tradimento sarà maggiore del profitto ad essergli fedele. Via Casini, Fini contro, Bossi cane sciolto... per Berlusconi la musica sta finendo.

Consenso e ragione. Voglio chidure lanciando e condividendo una riflessione. Credo che vada distinto il consenso politico dalla ragione delle idee. Riscuotere consenso non equivale ad avere ragione delle idee. La non equivalenza tra consenso e ragione è stata magnificata dalla Direzione Nazionale del PdL di giovedì. Fini, un leader solo con le proprie idee, non ha consenso all'interno del PdL, conta meno del 10%. Ma la forza del suo 7% sta nelle idee che ha, molto più forti del consenso numerico che esse potrebbero avere e soprattutto capaci di mettere in difficoltà Berlusconi e il suo consenso del 93%. Idee che personalmente apprezzo per la coerenza ma non sempre condivido, soprattutto sui temi etici. Comunque sia, anche in questo passaggio, cioè nella certificazione che la ragione delle idee può competere con la forza del consenso (che in una democrazia mediatica spesso degrada nel populilsmo sia a destra che a sinistra), sta una novità positiva di quanto sta accadendo nel PdL e sopratutto sta un chiaro segnale della nascente solitudine del boss.

Ricerca della verità e libertà (anche nella Chiesa)

Ricerca della verità e libertà hanno molto a che fare l’una con l’altra, in ogni campo della convivenza umana.

È vero per l’arte, la cultura e la scienza: non si raggiungono alte vette espressive, non si esplorano a fondo i meandri dell’animo, non si sondano le leggi costitutive dell’universo se non si è liberi di sperimentare e cercare.
È vero nel campo dei rapporti sociali. Senza libertà, giocata nell’eguaglianza e nel rispetto dei diritti di ognuno, nessun uomo può mostrare agli altri il suo reale volto. E probabilmente vivremmo ancora in un mondo di appartenenze e ceti prescritti alla nascita: un mondo di maschere, dove non ci sarebbe nemmeno concesso decidere quale maschera indossare.
Ambiente di lavoro, famiglia, scuola: oggi possiamo scegliere cosa vogliamo essere e lottare per diventarlo. A guidarci è la ricerca di un’espressione personale più vera e completa. Ricerca che nemmeno inizierebbe se non avessimo ormai radicato dentro il sentimento della nostra libertà. Una libertà costitutiva, definitiva e incoercibile. Una libertà da uomini.

Di tante osservazioni connesse alla tempesta che in queste settimane coinvolge la Chiesa, voglio proporne una attinente alle affermazioni appena fatte.
Non ho motivo di credere che a Roma la ricerca della verità sia possibile, completa e autentica se non accompagnata dalla libertà delle persone che la praticano e del sistema in cui quelle persone agiscono.
Tanto meno credo che, in assenza di tale libertà, la ricerca della verità possa diventare patrimonio dell’intera comunità dei fedeli e dunque “metodo” condiviso per una Chiesa più ricca e feconda.

Questa libertà attualmente non c’è. Non c’è perché il funzionamento della Chiesa si basa su una tradizione bimillenaria che va in direzione opposta. Essa è fondata sull’obbedienza, sul culto della riservatezza e del segreto curiale, sull’ossequio gerarchico, sulla lotta contro ogni voce dissidente, sull’autorità del dogma.
Questi fattori hanno contribuito in misura determinante all’eccezionale longevità della Chiesa stessa ma hanno poco a che vedere con la ricerca di una verità autonoma sulle cose dell’uomo. Sono anzi suoi nemici dichiarati, da sempre: e oggi la verità ufficiale che scende dall’alto non è più sufficiente a tenere coesa l’assemblea dei credenti.

Uomini e donne pretendono da chi li governa un rendiconto delle loro azioni. Questa pratica si chiama democrazia ed è, in politica, ciò che più si avvicina alla realizzazione del principio sopra esposto.
La libertà di scegliersi i governanti è strettamente connessa al compito di questi ultimi: cercare la verità di rapporti sociali più autentici e soddisfacenti per tutti. Dove manca tale libertà, il potere spesso si arrocca in un angolo, con conseguenze deleterie e non di rado tragiche. E pur con tutte le sue brutture, la democrazia è al momento il meglio che abbiamo a disposizione per praticare una libertà degna di questo nome.

Nella Chiesa non c’è democrazia. Alla Chiesa la democrazia serve. Non solo perché viviamo in un’epoca che ha fatto a pezzi il principio gerarchico e dell’insofferenza contro l’autorità un tratto costitutivo. Le serve, molto di più, per dare purezza e autorevolezza al messaggio di Cristo. In pericolo non è, non è stata e non sarà l’esistenza della Chiesa, che è solo messaggera. In pericolo è il messaggio. Le gerarchie ecclesiastiche devono abbracciare la libertà, perché solo una maggiore libertà nella pratica pubblica dei loro compiti permetterà alla Chiesa di incarnare credibilmente il ruolo affidatole da Cristo.

Concludo con una richiesta ai fedeli cattolici. Si facciano sentire. In queste settimane abbiamo ascoltato e visto vescovi e conferenze episcopali fare coming out sulla questione pedofilia. Hanno parlato perché sapevano che la società non avrebbe tollerato ulteriormente il silenzio. E con questa concessione all’opinione pubblica hanno ancora una volta salvato il sistema verticistico di cui fanno parte.
Ma i veri autori della Chiesa sono i fedeli e i fedeli mantengono un clamoroso silenzio. Per conoscenza diretta di sacerdoti e credenti so quanto sia scomodo per molti l’attuale momento e indigesto il comportamento delle gerarchie. Perché questi credenti non parlano? Perché nessun fedele scrive sui muri che sviare, sminuire e mistificare sono contro Cristo? Perché nessuno si alza in chiesa, la domenica, e grida che anche a Roma è possibile una rivoluzione?

giovedì 22 aprile 2010

La prima volta dell’impedito

E venne quel giorno. Anche per Berlusconi. Per la prima volta contestato. Accusato. Segnato a dito. In pubblico. Costretto a difendersi e a contrattaccare. Maldestramente. Non da un avversario politico. Non da uno al quale può dare del comunista. O del cattocomunista. Ma dal fondatore, assieme a lui, del medesimo partito. Ora terza carica dello Stato.

Il confronto è stato duro. A tratti aspro e perfino sgarbato. “Devi lasciare”. “Che fai, mi cacci?”. Al momento non sappiamo dove porterà. Non sappiamo se quella di Fini è strategia o più modestamente tattica. Certo 11 contrari e un astenuto sul documento finale non danno ragione di quanto accaduto. Perchè nulla sarà più come prima. Dentro il PdL e non solo. E probabilmente, di Fini, sentiremo parlare ancora a lungo.

Non basterà un altro predellino per ridare smalto all’azione del Presidente del Consiglio. La direzione nazionale di oggi ha reso il PdL meno distante da un partito normale. E per questo ha segnato una tappa irreversibile nella parabola discendente di Silvio Berlusconi. Un avvicinamento verso la sua uscita di scena. Perchè Berlusconi non può tollerare un altrpo da se che la pensi diversmante da lui. E lo obblighi ad un dibattito pubblico.

Sapranno, gli italiani, trarre opportune conseguenze dallo spettacolo indecoroso andato in scena oggi? Saprà il PD farne tesoro?

martedì 20 aprile 2010

Il controllo della politica: potere di nomina e logica clientelare

La questione: le differenze tra pubblico e privatoUno degli argomenti che più di altri spesso catalizza l'attenzione nel confronto tra pubblico e privato è l'efficienza. Si è soliti dire che il privato è più efficiente del pubblico, e che questa efficienza è agita da fattori quali la proprietà privata dei mezzi di produzione, dalla possibilità di lucrare un profitto, ovvero dal rischio di fallimento. Dinamiche motivazionali, spinte efficientiste e processi di responsabilizzazione del personale sono effettivamente più forti nelle organizzazioni private che in quelle pubbliche. La diversa intensità con cui questi fenomeni agiscono nelle organizzazioni pubbliche e private genera una forbice tra il diverso rendimento di quest'ultime, particolarmente evidente nei settori che vedono pubblico e privato agire come concorrenti: sanità e istruzione. A volte, addirittura, la differenza è tale che il pubblico, e i suoi sostenitori, percepiscono il privato come una minaccia per la propria sopravvivenza. Procedendo su tale ragionamento, comunque fondato, la differenza nella qualità del servizio reso (si pensi alla sanità) determina, attraverso la politica dei prezzi e delle tariffe, una segmentazione dell'utenza in due categorie: i pochi-danarosi-semplici e i tanti-meno abbienti-critici. Come è possibile? E, soprattutto, come intervenire senza cedere alla tentazione di mettere in contrapposizione pubblico e privato?

Come è possibile: il clientelismo.
Pubblico e privato sono soggetti alla stessa patologia: il clientelismo.
Il clientelismo, o logica clientelare, è lo strumento che ha la politica, una parte non nobile della politica, di controllare l'economia per finalità ed interessi particolari. La logica clientelare è manovrata attraverso il potere di nomina. Il politico che nomina, o favorisce la nomina, di un dirigente o di un operatore in un'azienda, pubblica o privata, mette il "nominato" nelle condizioni di "mostrargli la propria gratitudine". Gratitudine che, ben inteso, condizionerà il suo lavoro nell'organizzazione nella quale è stato nominato. Il potere di nomina, con le clientele che ne seguono, colpisce sia le organizzazioni pubbliche (Enti, Aziende Sanitarie, Aziende Ospedaliere, ecc...), sia le organizzazioni private (Banche, l'ha scoperto anche Bossi!). L'incursione della politica nel funzionamento delle organizzazioni pubbliche e private, in settori delicati come quello della sanità, produce effetti distorsivi nel loro funzionamento, favorendo gli interessi particolari a scapito di quelli collettivi. Il ricordo della Clinica Santa Rita può valere come esempio.

Come intervenire: chiarire la committenza.
Spesso le persone nominate e "clientelizzate" possiedono le competenze per occupare i posti ai quali vengono assegnate. L'elemento distorto non è il loro curriculum, ma la committenza. Il committente, colui che dà il mandato e verso cui l'incaricato si obbliga integralmente, deve coincidere con l'organizzazione per i cui interessi egli deve agire. Non è un fatto secondario o marginale. Significa togliere alla politica, alla sua parte meno nobile, il potere di controllare i settori più delicati orientandone i livelli di prestazione per finalità particolari, non sempre coincidenti con l'interesse generale. Significa impedire che si generi lo scontro tra sanità pubblica e privata, posto che entrambe devono potersi organizzare autonomamente, senza beneficiare di rendite di posizione e senza pagare il prezzo di privilegi concessi ad altri. E' un discorso molto più pratico di quanto possa sembrare. E per questo molto complesso da teorizzare.

Pietro Insinnamo

lunedì 19 aprile 2010

Leva fiscale e politica industriale, uscire dal guado

Non credo che il problema dell'equilibrio del bilancio dello Stato e degli Enti Locali possa trovare soluzione strutturale e definitiva nella lotta all'evasione. E' sacrosanto, condivisibile e difendibile il principio, teorico e pratico, che alle necessità della collettività concorrano tutti i cittadini in ragione della propria reale capacità contributiva. Il punto per me focale è però un altro. Lo Stato e gli Enti Locali devono "budgetare" le uscite in ragione di quanto prevedono, con ragionevole certezza, di introitare. Quanto è certo l'incasso derivante dalla lotta all'evasione? Quanto questa lotta può essere presa a riferimento per determinare i livelli di spesa sostenibili? L'evasione va combattuta, ma non può costituire l'unica strategia (e forse neanche quella prevalente) per il finanziamento delle spese correnti. Va semmai messa a fuoco l'equazione esistente tra spesa - gettito e tra reddito - produzione: l'entità del gettito, che determina il livello della spesa sostenibile, è funzione dell'entità del reddito, determinato da quanto un'economia produce. Più un sistema economico produce, in termini di ricchezza, maggiore è la quota che esso può destinare alle necessità collettive. Un'economia depressa sarà sistematicamente compressa tra l'incudine del debito e il martello dei tagli alla spesa. Un'economia caratterizzata da stabile crescita, direi virtuosa, può trovare nel valore aggiunto prodotto la via per svincolarsi dalla morsa dei tagli e del debito, senza ricorrere alle chimere delle alchimie contabili. Certo serve una politica che favorisca, culturalmente prima che ancora che negli atti formali, l'industria. Una politica industriale che ponga le condizioni strutturali, strategiche, infrastrutturali, culturali per consentire alle imprese di "produrre ricchezza" in senso lato, con effetti a cascata in termini di ricadute sociali prima ancora che economiche. Svilupperò ulteriormente il ragionamento, non prima di avere messo in evidenza, in un prossimo post, il tema del "controllo esercitato dalla politica sull'economia: potere di nomina, diritto di clientela".

Pietro Insinnamo

domenica 18 aprile 2010

BILANCIO PUBBLICO E RAPPORTO PUBBLICO-PRIVATO
Con riferimento alle mie riflessioni sul Patto di Stabilità, Pietro sottolinea due aspetti: A) il dilemma tra tagliare le spese pubbliche o contrarre nuovi debiti. B) la devoluzione al privato del “ centro di interessi economico sociali”, mediante trasferimento “non regolato” di componenti della spesa pubblica, dal pubblico al privato.
I) Alternativa tra contrarre le spese o aumentare i debiti. La risposta dovrebbe essere: puntare sempre ad un equilibrio di bilancio, che consiste nell’avere, tendenzialmente, il C/Economico in pareggio e Debiti per ammontare compatibile con le entrate proprie. Questi criteri non sono nuovi né sconosciuti agli amministratori attuali. Esistono già le regole che vincolano gli Enti locali a debiti che non siano superiori a determinati limiti(15% entrate correnti) e anche pressioni per scongiurare deficit correnti a ripetizione ( patto di stabilità). Il problema è che da un lato si mettono le mani avanti dicendo che i guai amministrativi sono eredità di altri e quindi si chiede di essere esentati dai prezzi del riaggiustamento. Dall’altro è innegabile una tendenza generalizzata ad aggirare le regole: molti pseudo “ Avanzi di Amministrazione gestionali” sono il risultato di manipolazioni delle regole contabili, fatte per aggirare i vincoli imposti. In questo caso è il controllo che difetta e le sanzioni sono grida manzoniane in un Paese governato da Politici che spendono molta energia a combattere regole e istituzioni che devono farle applicare. Come si devono interpretare i giudizi “generici” sulla esosità del fisco, espressi non al bar ma nei palazzi istituzionali? E le sparate contro la magistratura? E i condoni a ripetizione? Il primo e più urgente lavoro da fare, allora, è ripristinare il senso della “ legalità”. Ogni legge può e deve essere discussa nelle sedi appropriate, anche per stimolarne il cambiamento, ma va sempre rispettata, sia per quanto dispone che per i modi con cui è lecito discuterne. I grandi paesi del capitalismo ( USA e Inghilterra), in queste cose, sono ineccepibili. Questo dovrebbe valere anche per il PD.

II) Trasferimento ai privati di spese per servizi pubblici: “privatizzazioni” estranee alla logica del “mercato”. Il tema, per come lo si osserva da noi, va riformulato nei seguenti termini: avendo l’obiettivo di “ privatizzare” determinati servizi sociali per sottrarli ad ogni regola “pubblica”, la via che si segue è “ marginalizzare” il pubblico per rendere inevitabile il privato. Per esemplificare si può fare il caso della sanità. In Lombardia si ha la percezione che gli Ospedali pubblici sono “trascurati” a vantaggio delle Cliniche “accreditate”. Uno dei migliori esperti del settore, Francesco Longo, spiega che la sanità insieme ai servizi sociali, pesa per il 12,5% del PIL. In assoluto è il settore più importante dell’economia. Su 140 miliardi di euro di spesa complessiva, la parte pubblica pesa 105 miliardi ed ha un deficit modesto del 3-4% concentrato per l’80% tra Lazio, Sicilia e Campania. La sanità è una delle principali leve di sviluppo, produce occupazione, lavoro qualificato non delocalizzabile, ricerca. Insomma non ci sarebbe motivo per non vedere il Servizio Sanitario Nazionale come istituzione altamente positiva. Da noi invece se ne parla come un peso per l’economia manifatturiera. Perché? Ci sono diverse ragioni. Ne accenno alcune. Primo: i privati nel mercato sanitario. Il mercato sanitario italiano è il terzo d’Europa: il privato con 9 specialità spiega il 70-80% del fatturato, il pubblico con le stesse specialità spiega il 30%. E’ vantaggioso per il privato avere un mercato redditizio, con committenza “pubblica” assicurata e senza obbligo di funzioni “assistenziali”. Secondo: le grandi Istituzioni non pubbliche nel mercato sanitario. La Conferenza Episcopale Cattolica americana e i Sindacati di settore si sono dichiarati contrari alla riforma sanitaria varata dal Presidente Obama. La motivazione di sostanza è il conflitto di interesse : la Chiesa cattolica è uno dei più grandi imprenditori privati del settore ed è l’Istituzione che riserva a sé l’intervento assistenziale per i cittadini che non sono assicurati, i poveri. Anche da noi la Gerarchia vedrebbe bene una sua legittimazione, attraverso la Caritas, quale “intervento caritativo di ultima istanza” ( F.L.). Quanto ai Sindacati USA hanno lavoratori assicurati; i non iscritti al sindacato non sono assicurati. Obama pensa, invece, che tutti debbano essere cittadini a pieni diritti, compreso il diritto alla cura sanitaria, che da noi è garantita dal Servizio sanitario nazionale. Questo dovrebbe essere un punto “non negoziabile della politica del PD”.
Su come si dovrebbe governare il rapporto pubblico-privato “senza degradare in vecchi antagonismi pubblico – privato” ( Pietro), proverò a dare qualche indicazione più avanti.
Mario Santo 18/04/2010

sabato 17 aprile 2010

Il desiderio del bene...

Ieri leggevo un bel commento sul Vangelo dei cinque pani e due pesci: 5000 persone da sfamare, gli apostoli non sanno cosa fare, e si presenta a Gesù un ragazzino che offre quello che aveva, cinque pani e due pesci, appunto....il commento non si soffermava sul miracolo di Gesù ma sulla generosità di questo ragazzino. Diceva il testo: "C'è un ragazzo con del pane d'orzo, segno di povertà e di essenzialità, ma soprattutto c'è la sua disponibilità a dare tutto, con il rischio di rimanere a digiuno pur di mettere a disposizione ciò che ha. La fiducia nel Maestro supera i morsi della sua giovane fame, il desiderio di aiutare travalica qualsiasi incredulità".
Mi hanno molto colpito queste parole e le ho riferite all'impegno politico: in questi mesi più che mai, impegnarsi nel PD è una grande delusione. Anche ieri sera, alla Direzione provinciale, che sconforto nel sentire i vari interventi, a partire dal Segretario provinciale: non c'è la minima voglia di cambiare, di voltare pagina, di provare a fare qualche cosa di diverso. Ieri sera sono tornata a casa arrabbiata, sconfortata. Ma chi me lo fa fare? Tanto a che serve tutto ciò?
Poi oggi ho riletto queste parole. Se davvero il desiderio di fare della politica un servizio, lavorare in questo mondo con competenza e passione per servire la società, e in primo luogo gli ultimi, non rassegnarsi davanti a ciò che vediamo, se questo desiderio superasse la nostra incredulità di poter contribuire, nel nostro piccolo, al miglioramento della società, allora forse, invece che lasciare tutto nelle mani dei soliti furbi, troveremmo anche noi la forza per reagire e cambiare noi per primi il passo di una politica sempre più lontana dalla persona.
Sono due le grandi tentazioni che dobbiamo quindi superare. La tentazione di credere di non poter cambiare nulla perchè siamo troppo piccoli, troppo deboli e i nostri sforzi non servirebbero a niente. E la tentazione di lasciare che lo scoraggiamento e la delusione superino il nostro desiderio di bene. Dovremmo prendere esempio da quel ragazzino, che quella lontana sera di 2000 anni fa, ebbe il coraggio di fare un passo avanti e permise il miracolo....Anche questo PD, affinchè avvenga il miracolo della sua rinascita, ha bisogno di persone così, persone animate da quel desiderio di bene che travalica ogni difficoltà!

Maria Angela Monti

giovedì 15 aprile 2010

Torno sul problema del Patto di stabilità, stimolato dalla manifestazione di protesta, di giovedì 8 aprile, guidata dal sindaco leghista Attilio Fontana di Varese. In proposito, osservo che anche l’attuale presidente della Provincia Galli, ogni volta che è messo a confronto con le contraddizioni del bilancio provinciale, grida contro Roma ladrona – peraltro controllata da esponenti della Lega- che sottrarrebbe soldi alla Lombardia per darli ad altri.
Il bilancio della Provincia, come ricordavo nel precedente mio intervento, mette assieme : deficit correnti e debiti in aumento. Questo mix fa a pugni con il preteso rispetto del patto di stabilità. Il vero problema è che neppure la vituperata Roma sembra disporre delle risorse finanziarie che pure avrebbe diritto ad incassare. Giorni fa sono stati pubblicati gli ultimi dati elaborati delle dichiarazioni dei redditi dei contribuenti italiani. Il 90% dei contribuenti ha denunciato una base imponibile sotto i 15.000 euro. Del restante 10% almeno l’80% è costituito da lavoratori dipendenti. Non dimentichiamo, infine, che circa il 25% degli italiani dichiara addirittura di non avere materia imponibile. Dunque il nostro o è un paese di poveri diavoli del terzo mondo oppure tiri ognuno la conclusione. Forse siamo, per qualche ragione, dei diversi. The Economist, autorevole rivista di destra inglese, ragionando sulla necessità che l’Inghilterra ha di uscire, con misure straordinarie, dal disastro finanziario mondiale, per il quale ha qualche responsabilità, riferisce che: “ Britain has always paid its debts; investors don’t yet doubt the ability of a British government to get a fiscal grip after the election; and Britons tend to pay their taxes. “ Qui sta la differenza: gli Inglesi “tendono a pagare le loro tasse”. È su questa considerazione che dovrebbe soffermarsi la Lega Nord.
Il problema del Patto di Stabilità consiste, in gran parte, nel fatto che tanta parte della cittadinanza, del Sud come del Nord, si sottrae al dovere di pagare le proprie tasse. Di conseguenza nei bilanci pubblici ci sono entrate insufficienti a coprire i costi. Questo, naturalmente, non vuol dire negare diffuse pratiche di pessima amministrazione. Fontana, allora, farebbe meglio a protestare contro l’evasione che c’è e guidare manifestazioni per chiedere al governo, su cui ha influenza sicura, di esigere il rispetto del dovere fiscale. Quanto ai nostri del centrosinistra, si associno pure alla proteste leghiste contro le rigidità del Patto di Stabilità, ma dedichino un pò del loro tempo anche a ragionare sulle storture dell’attuale sistema impositivo.

mercoledì 14 aprile 2010

Saronno: Porro e il Centrosinistra, Gilli e il Centrodestra. Qualcosa in comune?

Le vittorie Porro e Gilli
E' prossimo l'insediamento dell'Amministrazione Porro a Saronno, recente trionfatrice alle amministrative. Il clima di entusiasmo, di diffuso e benevolo consenso che accompagna questa elezione presenta alcune interessanti analogie con il medesimo clima che si respirò in Città nel 1999, quando a vincere sull'onda dell'entusiasmo e del traino personale fu Gilli.

Nuovismo, civismo
Ora come allora la coalizione vincitrice ha caratterizzato la propria candidatura a guida della Città come il "nuovo" contro il "vecchio". Il Gilli del 1999, fino ad allora figura di retroguardia nell'arcipelago democristiano, si propose e venne percepito come un punto di discontinuità e di rottura col passato. Il Porro di oggi, benchè di lungo trascorso politico, ha riscosso un notevole credito di consenso come portatore di un modo nuovo di amministrare la Città, in discontinuità con il metodo - Gilli degli ultimi 10 anni. Sia Gilli nel 1999 che Porro nel 2010 hanno, fin dagli slogan, messo al centro del proprio messaggio mediatico la Saronno-Città. Emblematico il "Viva Saronno Viva" con il quale Gilli tappezzò la Città 11 anni fa; evocativo di una analoga centralità il "AmiAmo Saronno" di Porro nel 2010. Gilli poi, a conferma della propensione a privilegiare la dimensione civica su quella politica, nel 1999 si presentò come espressione di una lista civica (Unione Saronnese di Centro). Porro ha a lungo militato in una lista civica e, giusto osservalo, il suo partito (PD) ha presentato una lista copiosamente farcita di persone provenienti dall'esperienza civica. Insomma: effetto annuncio, "nuovismo", "civismo". Questi i tratti della campagna Porro che trovano analogie e similitudini con la campagna Gilli del 1999.

Coerenza, successo
Il centrodestra di Gilli seppe dare seguito e contenuto, a prescindere da come la si pensi, alle attese generate nella campagna del 1999. La prima amministrazione Gilli modificò a trecentosessanta gradi il modo di comunicare dell'Amministrazione, il modo di gestire la leva mediatica. Se questo poi si tradusse in cambiamenti positivi di sostanza è difficile dirlo. Sicuramente l'elettorato premiò la prima Amministrazione Gilli, ritenendo che essa avesse corrisposto alle proprie attese. Ora tocca a Luciano Porro e ai suoi dare seguito ai propositi di campagna elettorale. Nei modi e nei contenuti. Anche nell'affrontare questa sfida di coerenza con se stessi Porro e Gilli rischiano di trovare qualcosa in comune.

martedì 13 aprile 2010

Intorno al 25 aprile

Tra circa due settimane è di nuovo 25 aprile e tutti ricordiamo cosa è accaduto l’anno scorso. Dopo averla disertata per anni, Berlusconi si è impadronito della festa, presentandosi quasi partigiano tra i partigiani. E ha pronunciato parole apprezzate da tutte le parti politiche. La prima e direi ultima volta, a mio gusto, in cui ha dato qualche segnale di vera levatura di statista. Poi sono arrivati la D’Addario e il codazzo di scandali bipartisan che hanno depresso la scena negli ultimi mesi, e il ricordo di quel discorso si è rapidamente perduto. Ma non è di questo che voglio parlare. Voglio parlare del perché il 25 aprile non esercita più adeguato fascino sulle coscienze degli italiani. Cosa innegabile e più volte annotata dagli osservatori delle nostre vicende. Ecco dunque alcune radici - storiche, culturali e ideologiche - dell’attuale situazione.

Primo. Il 25 aprile maturò in una parte d’Italia precisa e limitata. Nella primavera del 1945 gran parte del paese respirava già un clima nuovo e rimase completamente estraneo alle vicende che infiammavano la Pianura Padana.

Secondo. Il 25 aprile è la festa della Liberazione dall’occupazione nazifascista: poiché la storia alla lunga non mente, è difficile nascondere che quella liberazione coincise con la peggiore sconfitta militare e le più grandi devastazioni che il nostro paese avesse mai subito. Non è piacevole ricordarlo.

Terzo. La Resistenza ebbe il ruolo di comprimario. Affiancò con il suo sacrificio le truppe anglo-americane, senza le quali i tedeschi non sarebbero mai stati cacciati. Nessuno storico serio si azzarderebbe oggi a negare ciò.

Quarto. Nella Resistenza italiana erano rappresentate, seppure in diversa misura, tutte le tendenze politiche. Cattolici, azionisti, comunisti, monarchici, liberali, socialisti, persino anarchici: tutti diedero il loro prezioso contributo. Ma nei decenni successivi questa realtà faticò a emergere e via via se ne perse la cognizione. Furono soprattutto i comunisti, egemoni culturalmente, a fare della Resistenza uno dei punti forti del proprio apparato ideologico e propagandistico. Con questo effetto: che la Resistenza è diventata indigesta a moltissimi.

Quinto. Molti combatterono dall’altra parte e quella che combatterono fu una guerra civile: anche questo è ormai definito. Non potevano riconoscersi nella vittoria dei loro avversari. E i loro discendenti politici non vi si possono riconoscere oggi.

Sesto e più importante di tutti. Molti non combatterono affatto, né dall’una né dall’altra parte. È la famosa «zona grigia» in cui si collocò la maggioranza degli italiani, in attesa degli eventi. Superficiale era stata la loro adesione al mussolinismo di guerra, superficiale fu, dopo, la loro adesione ai nuovi miti della Repubblica.

Il 25 aprile è festa nazionale e una festa nazionale è per definizione una festa della nazione. La nazione è la comunità di uomini e donne uniti dalla lingua, dalla cultura, dalle tradizioni e dalle vicende storiche. Non formano passivamente la nazione, non sono iscritti ad essa d’ufficio, non basta l’atto di nascita per appartenervi. Abbiamo una nazione quando uomini e donne si riconoscono nei tanti fattori che li legano, quando formano appunto una comunità. Su tale base e sulla scorta degli elementi prima enumerati è facile capire perché il 25 aprile non susciti negli italiani la passione che molti vorrebbero. Una larga parte dei nostri concittadini, e forse la parte maggiore, non lo riconosce come elemento fondante della nazione. Nega il valore morale e rigenerante della Resistenza. E di conseguenza non reputa il 25 aprile elemento costitutivo dell’identità italiana. Per questo lo vive male o con indifferenza.

Quando arriverà - immagino da destra - la proposta provocatoria di degradare il 25 aprile e depennarlo dalla lista delle feste nazionali?

Luciano Porro è il sindaco di Saronno: a Luciano, Augusto e Mario congratulazioni, risultato meritato. Buon lavoro.

Luciano Porro ha vinto il ballottaggio con Michele Marzorati, ed è stato confermato sindaco di Saronno dopo la vittoria di giugno dello scorso anno contro Annalisa Renoldi. A Luciano faccio i miei complimenti per questo successo, molto meritato, e auguro buon lavoro. Stessi complimenti e stesso augurio faccio ad Augusto e a Mario, stretti collaboratori e sostenitori della primissima ora di Luciano. Augusto poi merita una menzione speciale per il tipo di campagna elettorale che ha fatto: equilibrata, ricca di contenuti, sobria. Il consenso delle urne (candidato più votato in Città in assoluto, sia alle comunali che alle regionali) è solo la conseguenza logica del suo modo di essere politico e di fare politica.
Cari amici, avete sulle spalle un grosso carico di responsabilità: la corazzata Porro si è proposta come il grimaldello del cambiamento, del nuovo, della speranza. Per tutti, sia per chi sta dalla vostra parte che per chi sta da altre parti. Noi oggi ci troviamo su "territori" diversi tra loro "confinanti". Abbiamo un confine in comune, una linea di contatto immaginaria rappresentata dalla necessità e dal desiderio di dialogo. Passata la sbornia da festeggiamenti elettorali, archiviate e riposte sugli scaffali le urne, quella linea di confine che separa la zona di chi ha vinto da quella di chi non ha vinto diventerà la stella polare dei rapporti politico-istituzionali e socio-economici in Città. Ognuno deve restare e resterà nella propria zona. Da questo blog, che delle zone di confine ha fatto una missione, un titolo ed una ragione di esistere, e in tutte le sedi competenti, sarà importante tenere viva quella linea e frequentarla, perchè presidiare la zona di confine significherà praticare il dialogo e il confronto.

lunedì 12 aprile 2010

Saronno: come nel 2004 gli avversari del centrodestra vittime di attachi vili e vergognosi

Nel 2004 alla vigilia delle elezioni amministrative a Saronno circolò un penoso volantino dal contenuto falso e diffamatorio nei confronti del candidato sindaco del centrosinistra.
Alle elezioni del 2010 accade una cosa simile: alla vigilia del voto compare un volantino anonimo diffamatorio verso il leader di un gruppo politico, Unione Italiana, che, con le proprie legittime scelte elettorali, ha impedito al centrodestra di vincere le elezioni al primo turno.
Insomma: a Saronno gli avversari del centrodestra sono spesso bersaglio di voltantini anonimi dal contenuto diffamatorio. Chi tenta di vincere con questi metodi non merita di riuscirci. Atti di questo tipo tolgono dignità a chi li promuove, a chi li fiancheggia e a chi non vi si oppone sapendo di - ovvero con la speranza di - potervi trarre vantaggio. Penoso, sgradevole. Come nel 2004. Penso che questo volantino avrà solo due effetti: favorirà la vittoria di Luciano Porro, accrescerà la percentuale dell'astensionismo e delle schede nulle, cioè di coloro che decidono di non portare acqua al mulino di nessuno. Lasciando che vinca il migliore dei contendenti, quello più pulito e corretto.

domenica 11 aprile 2010

Saronno: è ora di voltare pagina

Nel 2004, vigilia di elezioni comunali, a Saronno iniziò a circolare un volantino firmato da una fantomatica "Consulta cattolica saronnese", organismo mai sentito prima (e neppure dopo) che conteneva una serie di accuse all'allora candidato sindaco del centrosinistra Angelo Tettamanzi.
Oggi, vigilia di altre elezioni comunali, spuntano improvvisamente altri volantini, questa volta senza alcuna firma, che accusano l'ideatore di Unione Italiana, Gianfranco Librandi, la cui discesa in campo con una lista autonoma dalla destra rischia di far perdere le elezioni al candidato Marzorati.

Quando a Saronno la destra rischia di perdere le elezioni, qualche manina anonima diffonde veleni e calunnie sui suoi avversari.

Una coincidenza ?
Non credo.

Piuttosto la conferma che in città c'è un clima ammorbante, una cappa di veleni sotto la quale si fa fatica a capire quali siano i veri interessi in gioco.
Certo non quelli dei saronnesi.

E quindi, comunque la si pensi politicamente, probabilmente, anzi, sicuramente, è ora di voltare pagina e di scegliere come sindaco chi non fa politica per farsi gli affari suoi.

Il nome ? Facile: Luciano Porro.

sabato 10 aprile 2010

Destra e sinistra: quando l'etica è zoppa (da Mattia Cattaneo)

Riparto dal post di Mattia dal medesimo titolo, che invito a leggere cliccando il link a destra nella home page di Zone di Confine. Mattia stigmatizza l'incoerenza presente sia a destra che a sinistra nel rapporto tra etica sociale ed etica della vita, sancite indivisibili dalla CEI e dal magistero della Chiesa. La destra si mostra incoerente nel difendere l'etica della vita e nel non praticare alcuna etica sociale (difende l'ostentazione del crocifisso, tratta i migranti come bestie, dice Mattia). La sinistra pratica un'etica sociale ma non difende l'etica della vita (accoglie i barconi di disperati, è a favore dell'aborto, dice sempre Mattia). Sia a destra che a sinistra ci sono molti politici cattolici, per la verità più a detra che a sinistra. Ma questo è un fatto marginale. Il punto è un altro: la diaspora democristiana ha prodotto un vuoto politico - culturale di pensiero, prima ancora che di consenso. Nessuno ha nostalgia della DC, soprattutto delle sue incoerenze e dei suoi difetti. Ma alla politica, alle istituzioni ed alla società italiana manca la presenza forte, determinante e condizionante di una formazione politica di chiara e non mascherata impostazione culturale cattolica. Non confessionale, certamente laica, ma di dichiarata ispiriazione cattolica. Una formazione che senza dover rendere conto e fare concesssioni a componenti interne di stampo liberal, radical-chic, progressiste, conservatrici, possa praticare senza timore sia la difesa della vita (declinata nei suoi molteplici aspetti), sia la difesa di un'etica sociale adeguata alle sfide di oggi e di domani.

Pietro Insinnamo

venerdì 9 aprile 2010

Federalismo shock per il bilancio dello Stato

Ho sentito il prof. Galli, ordinario di storia delle dottrine politiche, affermare che il vantaggio del federalismo fiscale consiste nel far coincidere nelle Regioni e nei Comuni i centri di spesa con i centri di prelievo. Questa circostanza poi, secondo il professore, attiverebbe dei meccanismi delatori che funzionerebbero a livello locale da disincentivo all'evasione fiscale. Credo che, restando nel campo del confronto tra opinioni diverse, ci siano argomenti per dissentire. Due in particolare: l'attività di prelievo risulta essere più efficiente se organizzata sulla grande scala; la moltiplicazione dei centri di prelievo produrrebbe una esplosione di costi non controllati. Per quanto riguarda le attività di prelievo dobbiamo intenderci: una cosa è la riscossione, altra cosa è la titolarità del gettito. Gestire il prelievo in modo accentrato, quindi con una unica struttura di riscossione (composta da un complesso sistema fatto di flussi documentali, dichiarazioni, controlli, analisi ed elaborazione dei dati, ecc...), non significa necessariamente accentrare anche la titolarità di quel gettito e quindi la potestà decisionale che lo riguarda. Resta comunque possibile distribuire il potere decisionale secondo criteri tutti da definire. Casomai sarebbe più interessante ridefinire gli equilibri negoziali tra Centro e Periferia, tra Stato e Regione, rendendo ad esempio più contendibile proprio quel potere decisionale e quella titolarità delle somme riscosse che oggi sono ben saldi nelle mani dello Stato centrale. Il federalismo fiscale rappresenta una seria minaccia per l'equilibrio di bilancio dello Stato. Centri di spesa e centri di prelievo possono continuare a risiedere in posti diversi. Le Regioni sappiano porre in modo serio la questione politica ed istituzionale della maggiore disponibilità di gettito di loro competenza.

Pietro Insinnamo

giovedì 1 aprile 2010

I geni della finanza ladrona

Il bilancio consuntivo 2009 della Provincia si è chiuso con un avanzo economico di 18,83 milioni, quasi l’esatto opposto del risultato 2008, quando il disavanzo è stato di 18,30 milioni, nonostante le condizioni economiche reali della Provincia non siano cambiate da un anno all’altro. Come dire che quando non si può cambiare la realtà si cambia la sua rappresentazione. Nel 2009 una alta percentuale di costi che erano previsti nei conti dell’anno è stata rinviata “contabilmente” al 2010 e un possibile disavanzo è diventato un “Avanzo di amministrazione”. Questo è stato fatto per rispettare il Patto di Stabilità: la rappresentazione formale della difficile condizione in cui si trova il nostro Paese. Il debito pubblico ha superato il livello di guardia e per tenerlo sotto controllo il Governo ha stabilito che gli Enti locali, abituati a vivere a debito, non possono spendere più di quanto incassano. Per questa via, pensa il Governo, il debito deve per forza diminuire. È evidente che con un vincolo così solenne si sta per forza nelle regole! Nel 2009 la Provincia si è trovata a dovere fronteggiare scadenze verso i fornitori per 85,00 milioni di euro e insieme rimborsare le rate annuali dei debiti accumulati. Naturalmente non c’erano soldi a sufficienza e , quindi, si è fatto ricorso a nuovi debiti. È ancora più evidente che senza soldi, le regole che non si possono rispettare si aggirano: il debito della Provincia, infatti, è cresciuto fino ad arrivare al triplo delle entrate correnti. Intanto la crisi causata non dai lavoratori ma dalle Banche, produce “deficit” correnti: nelle casse della Provincia entra, ogni anno, meno di quanto esce. Si producono nuovi debiti come “onde che si accavallano l’una sull’altra. Finchè inevitabilmente si infrangono sulla riva. È l’epopea dei geni della finanza ladrona…!!! "( G.Ruffolo). Si dovrebbe riflettere prima che sulle regole, che andrebbero comunque rispettate, sulla realtà delle cose per scrivere quel nuovo progetto sociale che aspettiamo da tanto dalla sinistra.
Mario Santo