Tra circa due settimane è di nuovo 25 aprile e tutti ricordiamo cosa è accaduto l’anno scorso. Dopo averla disertata per anni, Berlusconi si è impadronito della festa, presentandosi quasi partigiano tra i partigiani. E ha pronunciato parole apprezzate da tutte le parti politiche. La prima e direi ultima volta, a mio gusto, in cui ha dato qualche segnale di vera levatura di statista. Poi sono arrivati la D’Addario e il codazzo di scandali bipartisan che hanno depresso la scena negli ultimi mesi, e il ricordo di quel discorso si è rapidamente perduto. Ma non è di questo che voglio parlare. Voglio parlare del perché il 25 aprile non esercita più adeguato fascino sulle coscienze degli italiani. Cosa innegabile e più volte annotata dagli osservatori delle nostre vicende. Ecco dunque alcune radici - storiche, culturali e ideologiche - dell’attuale situazione.
Primo. Il 25 aprile maturò in una parte d’Italia precisa e limitata. Nella primavera del 1945 gran parte del paese respirava già un clima nuovo e rimase completamente estraneo alle vicende che infiammavano la Pianura Padana.
Secondo. Il 25 aprile è la festa della Liberazione dall’occupazione nazifascista: poiché la storia alla lunga non mente, è difficile nascondere che quella liberazione coincise con la peggiore sconfitta militare e le più grandi devastazioni che il nostro paese avesse mai subito. Non è piacevole ricordarlo.
Terzo. La Resistenza ebbe il ruolo di comprimario. Affiancò con il suo sacrificio le truppe anglo-americane, senza le quali i tedeschi non sarebbero mai stati cacciati. Nessuno storico serio si azzarderebbe oggi a negare ciò.
Quarto. Nella Resistenza italiana erano rappresentate, seppure in diversa misura, tutte le tendenze politiche. Cattolici, azionisti, comunisti, monarchici, liberali, socialisti, persino anarchici: tutti diedero il loro prezioso contributo. Ma nei decenni successivi questa realtà faticò a emergere e via via se ne perse la cognizione. Furono soprattutto i comunisti, egemoni culturalmente, a fare della Resistenza uno dei punti forti del proprio apparato ideologico e propagandistico. Con questo effetto: che la Resistenza è diventata indigesta a moltissimi.
Quinto. Molti combatterono dall’altra parte e quella che combatterono fu una guerra civile: anche questo è ormai definito. Non potevano riconoscersi nella vittoria dei loro avversari. E i loro discendenti politici non vi si possono riconoscere oggi.
Sesto e più importante di tutti. Molti non combatterono affatto, né dall’una né dall’altra parte. È la famosa «zona grigia» in cui si collocò la maggioranza degli italiani, in attesa degli eventi. Superficiale era stata la loro adesione al mussolinismo di guerra, superficiale fu, dopo, la loro adesione ai nuovi miti della Repubblica.
Il 25 aprile è festa nazionale e una festa nazionale è per definizione una festa della nazione. La nazione è la comunità di uomini e donne uniti dalla lingua, dalla cultura, dalle tradizioni e dalle vicende storiche. Non formano passivamente la nazione, non sono iscritti ad essa d’ufficio, non basta l’atto di nascita per appartenervi. Abbiamo una nazione quando uomini e donne si riconoscono nei tanti fattori che li legano, quando formano appunto una comunità. Su tale base e sulla scorta degli elementi prima enumerati è facile capire perché il 25 aprile non susciti negli italiani la passione che molti vorrebbero. Una larga parte dei nostri concittadini, e forse la parte maggiore, non lo riconosce come elemento fondante della nazione. Nega il valore morale e rigenerante della Resistenza. E di conseguenza non reputa il 25 aprile elemento costitutivo dell’identità italiana. Per questo lo vive male o con indifferenza.
Quando arriverà - immagino da destra - la proposta provocatoria di degradare il 25 aprile e depennarlo dalla lista delle feste nazionali?
martedì 13 aprile 2010
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Condivido l'analisi di Maurizio, sviluppata su sei punti. Tutte le componenti sociali hanno partecipato al momento storico della Resistenza, ma ognuna di esse ne ha tratto un significato proprio e specifico. L'unità nella condivisione della Resistenza si è esaurita, credo, con il compimento della sua vicenda storica. Il giorno dopo la Liberazione è iniziata una storia diversa, nella quale sono (ri)emerse le differenze tra le diverse componenti sociali. Differenze che esistevano anche prima, prima del ventennio e prima della Liberazione. Non credo si possa e si debba parlare di "degradazione" del 25 Aprile. Fare memoria di una vicenda sotrica ha un significato importante anche oggi, per tutti. Semmai a volte si corre il rischio di "sovradimensionare" gli effetti sperati di quella vicenda: l'unità delle forze politiche che hanno partecipato alla Resistenza non può costituire una ipoteca o una motivazione per una pretesa unità politica oggi di quelle forze. Preferisco pensare al 25 Aprile come al giorno in cui si fa memoria di una vicenda storica che ha restituito al popolo italiano la libertà da un regime dispotico.
RispondiEliminaIo credo che il rischio attuale non sia quello di "sovradimensionare" ma di "sottodimensionare" la vicenda storica del 25 aprile, attribuendo ad essa una valenza di parte (quasi partitica). Perchè,nella memoria di tale avvenimento, la posta in gioco non è il ritorno all'unità delle forze politiche che hanno partecipato alla Resistenza, bensì il recupero di quei valori e di quegli ideali che dovrebbero appartenere ad ogni cittadino del popolo italiano, e che oggi sembrano in parte smarriti. Non per idealizzare la Resistenza,ma non dobbiamo mai dimenticarci che valori come la libertà e la democrazia, di cui noi oggi godiamo, sono costati la vita a tanti uomini e donne: certo, non erano la maggioranza del Paese, ma sono morti per noi. E se ora abbiamo una Costituzione e delle Istituzioni che garantiscono ancora la democrazia, se abbiamo questi anticorpi che proteggono il Corpo dello Stato dai continui attacchi di Berlusconi, non dobbiamo dimenticare che esse furono il frutto straordinario di quel periodo storico.
RispondiElimina"Abbiamo una nazione quando uomini e donne si riconoscono nei tanti fattori che li legano, quando formano appunto una comunità".
RispondiEliminaSe la definizione di "nazione" è quella data da Maurizio, la conclusione cui giungo io è ancora più drastica della sua: l'Italia non è una nazione, ma una somma di particolarismi.
L'Italia è il Paese dei campanili e del "particulare", che non ha una narrazione comune cui riferirsi, non ha il senso della comunità.
E se questo difetto d'origine dello Stato Italia non è stato superato nel Novecento, dove si sono susseguiti alla guida del Paese dapprima il fascismo e poi la DC, un "partito-Stato", figuriamoci cosa può accadere adesso, quando i partiti sono liquidi e privi di base valoriale.
Il trionfo del "padroni a casa nostra" evocato dalla Lega è la conseguenza scontata di questa inclinazione naturale degli italiani.
Un trionfo di cui si fatica a scorgere l'antidoto.
Difficilmente può esserlo la sinistra, naturaliter allergica al concetto di "nazione" e per la quale, ironia della storia, il 25 aprile è da sempre festa di parte (la propria) e non della Nazione.
Che fare quindi ? Per evitare che prevalga chi lo ignora e chi lo considera festa di parte, serve un piccolo gesto: festeggiarlo, con un po' di retorica come ci ha insegnato Ciampi, sbandierando il tricolore e lasciando a casa, per una volta, i vessilli di partito.